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70 Campus di star Piero Mazzocchetti Sophie Lheureux Michele Di Toro SPECIALE L’Aquila Sped Abb. Post. GR. IV(70%) Tassa riscossa•Uff.P.T. Pescara Italia ottobre-novembre 2009 n. 70 • 4.50

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Vario, l'Abruzzo in rivista

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Campus di starPiero MazzocchettiSophie LheureuxMichele Di Toro

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Forme pulite, essenziali, che disegnano

con eleganza gli spazi. materiali pregiati

che evidenziano i dettagli con raffi-

natezza. luci morbide che accolgono

in un’atmosfera sospesa tra passato e

presente... rigorosamente classe.

rigorosamente...classe!

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abiti sofisticati, pensati per gli uomini

d’affari e per chi vuol vivere lasciando un

segno, un’dentità forte e riconoscibile.

la cura sartoriale si ritrova in

ogni abito “su misura”; esalta la

preziosità delle materie prime, delle fibre

nobili, attraverso nuove composizioni,

finezze sempre più elevate e abbinamen-

ti inediti, per chi ama avere un appeal

sofisticato e sobrio.

great minds thinks alike

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ALBANESE ATELIER

RICHMOND

SPAZIO ALBANESE

ALBANESE

ERMENEGILDO ZEGNA

ALBANESE D&G

ALBANESE

PLUS IT

EASY

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oottobre/novembre 2009

Direttore responsabile

Claudio Carella

Redazione

Antonella Da Fermo (grafica e foto),

Fabrizio Gentile (testi), Mimmo Lusito (grafica)

Hanno collaborato a questo numero

Giuseppe Capone, Andrea Carella, Annamaria Cirillo,

Galliano Cocco, Anna Cutilli,

Sergio D’Agostino, Laura Grignoli, Lorenzo Nardis,

Giovanna Romeo, Marco Tornar, Walter Tortoreto,

Fabio Trippetti, Ivano Villani.

EditingAB Puzzle Pescara

Progetto graficoAd. Venture - Compagnia di comunicazione

Stampa, fotolito e allestimentoAGP - Arti Grafiche Picene

Via della Bonifica, 26 Maltignano (AP)

Claudio Carella EditoreAutorizzazione Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87

Copia singola Euro 4,50

Abbonamento annuo (sei numeri) Euro 24, estero Euro 40

Vers. C/C Post. 13549654

Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana

RedazioneVia Puccini, 85/2 Pescara

Tel. e Fax 085 27132

www.vario.it

[email protected]

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Sommario121418222426283032344042444650565860626672747679808587919394

ATTUALITÀ Speciale L’Aquila

Il farmaco della solidarietà

Missione miracolo

Un restauro monumentale

Tesori da salvare

Il terremoto sulla pelle

Cronaca di un sisma annunciato

Vedere per credere

La voce delle tendopoli

Mani che parlano

PERSONAGGI Piero Mazzocchetti

PERSONAGGI Sophie Lheureux

PERSONAGGI Michele Di Toro

PERSONAGGI d’Annunzio

AZIENDE IAC

AZIENDE Broadcast

AZIENDE Area Legno

AZIENDE Heliosistemi

AZIENDE Barbuscia

RISTORANTE Regina Elena

VINI Tollo

VINI Guardiani Farchione

PASTA Rustichella d’Abruzzo

RIBALTA

MUSICA Mario Stefano Pietrodarchi

LETTERATURA Zaira Fusco

LIBRI

CINEMA

ARTE

TABÙ

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In che stato èSpeciale

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Il capoluogo dopo il sisma del 6 aprile:un problema grosso come una casa.Di più, come una città

L’Aquila?

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Il rapporto fortissimo e originale che lega

una multinazionale alla città.

Che il sisma del 6 aprile ha consolidato

di Claudio Carella

La medicina giusta per curare le ferite lasciate sulterritorio dal sisma del 6 aprile scorso? L’ha brevettatasanofi-aventis e si chiama solidarietà. L’azienda

farmaceutica francese (una delle più importanti nel mondo,presente in più di 100 paesi, con circa 100mila collaboratori, deiquali circa 19mila ricercatori impegnati in oltre 25 centrispecializzati) è presente con uno stabilimento all’Aquila fin dal1972, ma oggi balzata agli onori della cronaca grazie allarapidità e all’efficienza con cui ha reagito al dramma che hacoinvolto il capoluogo abruzzese e i comuni limitrofi, lasciandodietro di sé una scia di dolore e distruzione per la quale nessunmedicinale è stato purtroppo ancora mai inventato.“Ricostruire”è la parola d’ordine che più si sente pronunciaretanto dai politici locali che da quelli intervenuti al recente G8.Chi da subito ha iniziato a “costruire”, senza aspettare altruiinput, sono stati proprio loro, quelli della sanofi-aventis, chehanno aperto un cantiere di 5 ettari per la costruzione di uncomplesso residenziale temporaneo destinato a ospitare incase di legno i collaboratori di sanofi-aventis che ne hannofatto richiesta e le loro famiglie. Il direttore dello stabilimento èAndrea Ruggeri, reatino di origine, che di terremoti ne saqualcosa: il sisma della Val Nerina, ad esempio, gli fece tremarele gambe già prima di quellodell’Umbria nel ’97. Oggi festeggia isuoi 23 anni dal suo ingresso nellostabilimento di Scoppito e ci spiegacome è nato questo rapporto specialecon il territorio aquilano. Un rapportoche fa del sito, assieme al quartiergenerale milanese e alle aree industriali

di Origgio (in provincia di Varese), Garessio (Cuneo) Anagni(Frosinone) e Brindisi, uno dei cinque nuclei in cui il gruppoarticola la propria presenza italiana. Dice:«Quando siamoarrivati, nel ’72, a parte la Sit-Siemens, primo nucleo di quelloche sarebbe diventato il polo elettronico aquilano, non c’eranoaltri insediamenti industriali nella zona; tuttora, qui a Scoppito,la nostra è l’unica realtà industriale importante, e questo hadeterminato uno sviluppo del territorio direttamente collegatoalla crescita dello stabilimento. Le prime persone assunte sonostati i proprietari dei terreni acquisiti dall’azienda, gli abitantidella zona. È chiaro che dopo 37 anni si sia creato un rapportosimbiotico, che dura ancor oggi perché chi lavora qui è legatoal territorio e vicino allo stabilimento. Un rapporto che nasceda lontano e si è consolidato dopo il sisma». Quanto ha contato lo spirito della gente aquilana nellacostruzione di questo rapporto e quanto invece è dovutoa una politica aziendale? «Come spesso accade, la verità sta nel mezzo. La politicaaziendale del Gruppo contempla tra i suoi valori quello dellasolidarietà; inoltre, la mission stessa di un’aziendafarmaceutica non può prescindere dall’aiutare il prossimo. Vadetto che il nostro stabilimento è al 17esimo posto in Italia

nella classifica dei luoghi di lavoro dove sista meglio, secondo l’esito di unsondaggio tra i nostri 380 collaboratori,organizzato annualmente dal Great Placeto Work Institute. Quindi c’è già, nel dnadella nostra azienda, un forteorientamento al radicamento sul territorio,allo stare vicini alle persone che lavorano

Il farmaco dellasolidarietà

Speciale L’Aquila

Nella pagina a fianco: la

sanofi-aventis di Scoppito;

sotto, la tendopoli

e le case in legno sorte

nell’area dell’azienda.

Qui sopra, un particolare

della tendopoli;

in basso, Andrea Ruggeri,

direttore dello stabilimento

aquilano.

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per noi. Un orientamento che ben si salda con la fortemissione sociale che caratterizza il nostro gruppo, e che qui sisposa allo spirito, alla cultura, alla generosità, alla caparbietàdegli abruzzesi. Tutti fattori che hanno favorito la politicaaziendale, perchè se non si lavora nella stessa direzione èdifficile ottenere risultati». Come avete vissuto quei tragici giorni? Eravate preparati? «Eravamo in uno stato di preallarme, come tutti: nei giorniprecedenti si erano susseguite numerose scosse, alcuneanche molto forti. Per procedura, quando si verificano fatti delgenere, dobbiamo subito effettuare delle verifiche. Ilterremoto ci ha colto di sorpresa, come tutti del resto, ma noncompletamente impreparati: inoltre lo stabilimento ladomenica è chiuso, quindi la notte del sisma era pressochévuoto. Le nostre procedure aziendali hanno funzionato allaperfezione: alle 5 del mattino il comitato di crisi si era giàriunito. Io ero qui alle 4, 15 e c’erano già tre persone». Lo stabilimento non ha subito danni? «Abbiamo una struttura del 1972 e le aree dedicate allaproduzione, nate nel 1978, erano concepite già allora con criteriantisismici. Questo ci ha permesso di limitare i danni: a distanzadi tre mesi stiamo lavorando per consolidare lo stabilimento del’72. Ci siamo attivati con ditte specializzate, abbiamo mobilitato150 persone per ristabilire le condizioni lavorative. Di fattosiamo tornati al 100% dell’attività produttiva già l’11 maggio». Ma all’indomani dell’evento vi siete immediatamentemossi per prestare soccorso. «Dopo il sisma ci siamo preoccupati di conoscere le condizionie le necessità di tutti i nostri collaboratori, contattati pertelefono, sms, tramite appelli radio. Tra l’8 e il 9 aprile abbiamoallestito una tendopoli e riattivato la mensa per garantire i pasti;nella prima settimana abbiamo acquistato i beni di primanecessità, come i vestiti, le scarpe, distribuiti a tutti i dipendenti.Poi abbiamo pensato a migliorare la situazione: una voltacompresa la gravità dei fatti, automaticamente ci siamo chiesticome garantire ai nostri collaboratori una maggior serenità peril futuro, per quei tre o quattro anni che prevedibilmenteoccorreranno per la ricostruzione. Abbiamo praticamente datoil via a una “situazione-ponte”tra l’emergenza della tendopoli eil ristabilirsi delle normali condizioni abitative varando il PianoCasa sanofi-aventis». Il vostro esempio vi spinge a dare dei consigli a queltessuto industriale che ha subito mostrato l’intenzione dilasciare la zona? «Per noi essere rimasti è motivo d’orgoglio. Le aziende hannoil dovere di radicarsi nel territorio dove operano: offrono

lavoro e prendono energia dalle risorse umane, ma devonoanche dare. E questo qualcosa è l’esserci, non scappar viaquando si verificano eventi del genere. La nostrapreoccupazione principale è stata ristabilire al più presto lecondizioni lavorative, offrire ai nostri dipendenti una certezzadel futuro, sul fatto che noi ci siamo e ci saremo. Chi ha giàperso una casa, dei familiari, non deve subire altre perditecome il lavoro». Qual è l’importanza di Sanofi-Aventis nel territorio? «Sanofi-Aventis ha rappresentato un volano importante per lacrescita economica del territorio, a cominciare dalle aziendeartigiane e dalle attività che si sono sviluppate in questidecenni a Scoppito e nei comuni limitrofi. E anche lo stessocomparto farmaceutico si è arricchito di altre realtà, come laDompé e la Menarini. Insieme rappresentiamo circa il 30%dell’export di questo territorio. Questo significa che abbiamouna responsabilità, essere presenti e continuare a far da trainoall’economia della zona, perché il territorio ci ha dato tanto. Sesanofi-aventis è oggi la quarta azienda farmaceutica nelmondo e la prima in Italia, con aree terapeutiche d’eccellenzache vanno dalle trombosi alle malattie cardiovascolari, daldiabete all’oncologia, passando per il sistema nervoso centralee la medicina interna, per approdare ai vaccini, parte del meritosi può attribuire anche alla capacità produttiva del sitoaquilano, alla generosità, alla caparbietà, alla professionalitàdegli abruzzesi che hanno lavorato qui per tanti anni». Quali erano e come cambieranno i vostri rapporti conl’università dopo il sisma? «Continueremo a mantenere rapporti con l’ateneo dell’Aquila.Rapporti che si articolano in tesi di laurea, stage, laboratori,soprattutto con la facoltà di Ingegneria. L’università è la primarisorsa economica della città, un gioiello. Bisogna lavorareperché riacquisti subito una sede idonea, senza spostare leattività altrove: la città non perderebbe solo una proficua vocedi bilancio, ma un marchio importante». Avete anche confermato gli investimenti previsti per ilperiodo 2009-2011. «La società ha destinato ad investimenti sul territorio aquilanocirca 5 milioni di euro l’anno per i prossimi tre anni, una cifraragguardevole per uno stabilimento come questo. Ma cosaancor più importante è che avevamo in progetto lacostruzione di un centro di sviluppo tecnologico, avviatoprima del terremoto e che non abbiamo rallentato, atestimonianza della nostra volontà di restare; questo centropotrà rappresentare per lo stabilimento e per il territorio unagrandissima opportunità».

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Una task force al lavoro per mettere in sicurezza e custodire

in un caveau le opere d’arte di proprietà della Curia.

Lotta contro il tempo per salvare tesori dal valore inestimabile

Speciale L’Aquila

Missione miracolo

Mettere in salvo tesori dal valore inestimabile,scampati per caso (o per miracolo, che forse è lostesso) alla furia del terremoto, allestendo in poche

settimane un immenso caveau a prova di sisma. Avviare unaprima azione di restauro. Restituire alla comunità deglistudiosi, ma anche ai semplici cittadini e ai turisti, unpatrimonio che non ha davvero eguali. È il compito difficileaffidato dalla Curia aquilana a un pool di esperti, nominatosul campo all’indomani della tragedia del 6 aprile; unacatastrofe che nella sua contabilità, assieme alle vite umane,ha prodotto in una città che con la cultura si identifica, undanno stimato in almeno 3 miliardi di euro alle sole opered’arte.Lo guida un sacerdote, don Gino Epicopo. A lui –forse stavol-ta davvero in missione per conto di Dio– ed agli architettiLeonardo Nardis e Giuseppe Tempesta, è affidato il compitodi portare in salvo uno dei tasselli più preziosi che compon-gono il puzzle dell’aquilanità ferita, ovvero i beni culturali diproprietà ecclesiale.Don Gino Epicopo è all’Aquila dal 2001. Direttore dellabiblioteca diocesana, docente di filosofia, sembra possederedavvero il piglio giusto per guidare il difficile lavoro che loattende coi suoi collaboratori. Con lui, la premessa è obbliga-toria: che senso ha restaurare oggetti, quando la catastrofeall’Aquila è stata soprattutto umana? La risposta non si faattendere: «Perché è un dovere. Perché questi oggetti porta-no addosso la storia di un popolo che nei secoli si è tolto ilpane di bocca pur di ornare la propria città. E poi perché ci

ricorda dove dobbiamo andare, quale sia la direzione giusta:senza la storia non sapremmo neppure dove andare domani.Vivremmo spaesati nel presente, conservare e custodireserve proprio a trovare la strada…».Risolti gli aspetti etici, c’è però da fare i conti con il fattoretempo: «Per anni - dice - questo immenso patrimonio cultu-rale e artistico della città è stato conservato in quelle magni-fiche “teche” rappresentate da 426 edifici religiosi. Si tratta direperti unici – opere di Nicola da Guardiagrele, tele del ‘700 -che hanno rischiato davvero la distruzione. Penso alla diffi-coltà di recuperare gli affreschi di Francesco da Monterealenella basilica della Beata Antonia: dopo i crolli sono rimastiframmenti spesso molto piccoli che stiamo cercando di recu-perare, catalogare. Ma occorre fare presto: l’alternarsi di caldoe freddo è micidiale per beni non più protetti in alcun modo.Per materiali come il legno o la pietra tutto ciò rischia di pro-durre effetti devastanti».Poi, a complicare la missione, anche il fattore economico: ildramma aquilano sarà anche finito sotto gli occhi delmondo, ma al dunque –come forse temevano i più pessimi-sti– il piatto degli aiuti internazionali (attesi? promessi? sban-dierati?) sembra piangere. Perché oltre all’accertata disponi-bilità francese a restaurare la chiesa delle Anime sante, che inpiazza Duomo le telecamere di tutto il mondo hanno sceltoa rappresentare il dramma della città, per il resto le speranzehanno di gran lunga il sopravvento sulle certezze. I beni recuperati nell’immenso giacimento culturale che è ilpatrimonio ecclesiale dell’Aquila, ma anche da collezioni pri-

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vate cui erano stati prestati o conferiti, finiscono –a mano amano che vengono recuperati– in un deposito realizzato intempi record nella periferia industriale della città, nell’area diPile, avviato grazie alla stretta collaborazione realizzata con laConferenza episcopale italiana e i generosi proprietari dellaSpe: «Si cerca di far convergere tutto qui –prosegue donGino– con sistemi informatici in grado di aiutare a realizzareun rapido censimento del patrimonio, ma anche per valutarepossibili apporti finanziari esterni, eventuali sponsorizzazioni.Poi, proprio da qui muoveranno, come si trattasse di un pron-to soccorso, e d’intesa con altre istituzioni come laSovrintendenza e l’università, le prime ipotesi sul restauro.Occorre tener presente che si tratta di oggetti straordinari,come quelli custoditi nella biblioteca e nell’archivio: incuna-boli e “cinque centine” stampati all’Aquila, edizioni unichecon le opere di Platone e Aristotele… Poi, dovremo restituirealla collettività la fruizione di questi beni; penso alla bibliote-ca Carlo Confalonieri, ai suoi circa 120mila volumi, che grazieal sostegno della Cei cercheremo di riqualificare e mettere insicurezza. Quanto all’archivio, già dieci giorni dopo il terre-moto era stato reso disponibile».Giuseppe Tempesta, architetto, ha svolto la delicata funzionedi “apripista” nei confronti di vigili del fuoco e

Sovrintendenza: «Poi, dopo questa mia prima verifica sullostato dei beni ecclesiali, è toccato alle squadre diLegambiente procedere al recupero materiale. In questomomento è davvero impossibile effettuare una stima com-pleta dei danni, ma di sicuro suona a conforto sapere chetutte le opere non distrutte sono state messe in salvo e insicurezza». Leonardo Nardis è pure lui architetto. In tempi davvero stri-minziti gli è toccato mettere a punto il progetto per la realiz-zazione del capannone salva-opere d’arte: «Avevamo il com-pito piuttosto complesso di ripristinare anche le strutturedanneggiate della Curia, che è un po’ il centro operativoattorno a cui ruotano tutte le attività. Il capannone che ci èstato generosamente fornito era ancora allo stato grezzo,abbiamo dovuto avviare l’allestimento di mille e 300 metriquadrati davvero in poco tempo, pensare a una climatizza-zione adatta a ospitare opere d’arte e materiali del generepiù vario, a un sistema di sicurezza sofisticato a prova dieffrazione. E il capannone dovrà fungere pure da centro diprimo intervento per l’attività di restauro. In tre mesi abbia-mo fatto davvero miracoli…».Lo sguardo gettato oltre il proprio compito, tuttavia, svela leangosce sul futuro: «Le immagini rendono solo in parte giu-stizia di quel che avviene davvero, ci sono zone inaccessibilidella città dove si è modificato l’assetto viario in modo irre-versibile. In questo contesto per la gente è difficile capirecosa accada davvero, quale sia il destino di tutti, quali sceltedolorose si renderanno necessarie. Quantomeno, se progettiesistono, sono stati davvero mal comunicati: occorre condivi-sione degli intenti, chiamare esperti senza timore di coloniz-zazioni culturali, realizzare sinergie con chi opera sul territo-rio. Occorre un cantiere mondiale, lo richiede un centro stori-co così vasto e così danneggiato, non ha senso nascondersidietro campanilismi o a difesa delle capacità locali, che certovanno sollecitate e fatte esprimere». S.D’A.

In alto don Gino Epicopo direttore della Biblioteca diocesana, insieme agli architetti

Leonardo Nardis (al centro) e Giuseppe Tempesta con alcune delle opere d’arte

recuperate e messe in sicurezza dopo il sisma.

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Danneggiata dal sisma, l’abbazia

di San Clemente a Casauria

tornerà a vivere grazie all’impegno

della Fondazione Pescarabruzzo e

del World Monuments Fund Europe

Speciale L’Aquila

Un restauro monumentale

Nicola Mattoscio, Bertrand du Vignaud e Il Ministro Sandro Bondi durante la conferenza stampa del primo luglio a Roma

Nel 1348 un terremoto con epicentro nell’Appenninocentrale arrecò gravi danni all’abbazia che custodisce iresti di San Clemente, nei pressi di Castiglione a

Casauria. Prima del restauro trascorsero addirittura cento anni.Oggi, 661 anni dopo, un altro terremoto ha distrutto parte diquello che viene giustamente considerato come uno deimonumenti più importanti della regione (il complessoabbaziale fu dichiarato monumento nazionale con regiodecreto il 28 giugno 1894) ma sembra che per il restauro,stavolta, non si dovrà attendere a lungo. La FondazionePescarabruzzo ha infatti siglato a Roma il 1 ottobre l’accordo conil World Monuments Fund Europe (Wmfe), un’organizzazionetransnazionale americana la cui sede europea è a Parigi, per ilrestauro dell’abbazia cistercense, alla presenza del ministro per iBeni culturali Sandro Bondi. L’accordo prevede l’affidamento deilavori entro 70 giorni dalla stipula ed il completamento delprogetto con il ripristino dell’agibilità pubblica entro 18 mesidall’inizio dei lavori. Il costo previsto è di 1,4 milioni di Euro,coperto interamente dalla Fondazione (750.000) e dal WMF(940.000). Oltre la “zona rossa” del centro storico aquilano, quindi,l’abbazia di San Clementeè il primo edificiopubblico ad aver trovatodei finanziatori in gradodi far riaprire i battenti alcomplesso, chiusiforzatamenteall’indomani del 6 aprile. Si è dovuto però

attendere la fine del vertice internazionale del “G8” per poterdare il via alle procedure burocratiche e indire la gara d’appalto,realizzata attraverso una convenzione tra lo Stato (proprietariodel monumento) e le due Fondazioni. «I lavori si protrarrannoper i prossimi 12 mesi – spiega Nicola Mattoscio, presidentedella Fondazione Pescarabruzzo – e vigileremo affinchévengano rispettati i tempi e i risultati». Della stessa intensità leaffermazioni del presidente del Wmfe Bertrand du Vignaud:«Staccare un assegno non basta, e soprattutto non è il nostromodo di lavorare», afferma, «quindi seguiremo il progetto stepby step». Il World Monuments Fund, costituito nel 1965 da un colonnellodell’esercito americano in pensione, James A. Gray, realizzò il suoprimo intervento a Venezia ed è a tutt’oggi impegnato in circa90 Paesi nella conservazione e nel restauro di siti e opere d’arte.L’esperienza maturata dai tecnici di Du Vignaud e la competenzaterritoriale della Fondazione saranno così le due medicine ingrado di restituire la vita a uno dei luoghi simbolo della regione,meta obbligata del turismo artistico e religioso, luogo distraordinaria bellezza circondato da uliveti e colline, stabilendo

tra l’altro un accordo chediventerà un protocolloreplicabile dagli altri entie organizzazioni chevorranno “adottare” sitiartistici in Abruzzodanneggiati dalterremoto. F.G.

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Un significativo volume

di grande formato e pregio

accompagna il lettore dentro la città ferita,

che custodisce un patrimonio storico-artistico

tra i più ricchi e importanti dell’Italia centrale.

Speciale L’Aquila

Tesorida salvare

La prova più evidente dell’importanza rivestita daL’Aquila per tutto il Paese sta nel «grido di dolore chesi è levato da tante parti d’Italia e del mondo la

mattina del tragico 6 aprile 2009», nell’accorrere «di volontaridi ogni provenienza» e nel moltiplicarsi «delle più diverseiniziative che vogliono concorrere alla rinascita della cittàsfigurata e prostrata». Sono parole di Francesco Sabatini, abruzzese diPescocostanzo, eminente personalità oggi presidente onora-

rio dell’Accademia della Crusca dopo averne ricoperto l’inca-rico ufficiale, che introducono il volume L’Aquila, una cittàd’arte da salvare. Edito da CARSA Edizioni, Casa Editrice abruzzese che in tren-t’anni di attività editoriale ha studiato, documentato, pubbli-cato e valorizzato tutto il patrimonio storico-artistico dellacittà e del territorio aquilano, il volume permette di compie-re un viaggio di grande sintesi spettacolare in ciò che questacittà era, e che dovrà ridiventare.

L’Aquila, una città d’arte da salvare

saving an art city

introduzione di Francesco Sabatini

testi di C. Conforti, M. D’Antonio,

M. Latini, P. Properzi, E. Valeri

pag. 208, euro 75,00

CARSA Edizioni

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In ben 208 pagine di immagini di grande impatto, accompa-gnate da testi di alta divulgazione (in italiano e in inglese),autori di grande spessore illustrano l’immenso valore delpatrimonio culturale della «seconda città del Regno, alleatadi Firenze, gareggiante in arte e cultura con importanti cittàdell’Italia centrale»: Pierluigi Properzi si sofferma sull’evolu-zione urbana dell’antico centro; Claudia Conforti delinea unritratto storico-architettonico del capoluogo e delle sue piaz-ze; Maurizio D’Antonio, Marialuce Latini ed Elpidio Valeri illu-

strano i monumenti della città e della sua provincia colpitidalla violenza del sisma. Un viaggio doloroso ma pieno di speranza, dove piccolibrani di vita quotidiana, sospesi tra la serenità del prima e ildolore del dopo, emergono per raccontare un territorio e lasua gente, in attesa che torni a vivere lo splendore dei giornimigliori.

M.L.

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Tre storie diverse accomunate dal dramma collettivo

del 6 aprile. Un diario impietoso della tragedia

raccontato in prima persona da chi ne è stato testimone.

Speciale L’Aquila

di Walter Tortoreto

Terremoto zeronove

Diari da un sisma

Emiliano Dante

Massimiliano Laurenzi

Valentina Nanni

presentazione di Bruno Vespa

foto di Emiliano Dante

edizioni Textus

Il terremotosulla pelle

Tre ragazzi aquilani hanno accettato di scrivere e dipubblicare per le edizioni Textus il loro personale diariodel terrificante terremoto che ha distrutto L’Aquila e il suo

territorio dal 6 aprile in poi. Nei loro scritti compare di tutto: lerovine d’una città distrutta, i morti e i feriti sotto le macerie, ilpianto senza lacrime, le tendopoli presidiate, la città militarizzata,la follia individuale e collettiva, un silenzio a tratti lunare, glianimali randagi, l’andirivieni frenetico e senza scopo che sembraliberatorio ed è invece anticamera della pazzia… e c’è il cuorepalpitante di tre giovani che s’interrogano di fronte all’apocalissee capiscono, o intuiscono, che il sentimento del tempo e dellospazio si trasforma quando la terra grida le sue disumane ragioni.La terra è un essere vivente che ha le sue leggi; e sono leggicosmiche (i luoghi fittamente antropizzati non si sottraggono aquesta fatalità naturale, metabolizzata dall’uomo fin dall’iniziodella civiltà nei più difformi sistemi di pensiero). Si cammina tratrincee di calcinacci guardando, bevendo, piangendo, gridando…e sull’umanità percossa e attonita il soccorso è sempreinadeguato. Ognuno ha le sue ragioni, ma volontariato e

altruismo spinto all’eroismo non bastano a soccorrere: ilterremoto delle 3.32 e le micidiali scosse successive hannoprovocato un disastro dai grandi numeri, per cui tutto èsovradimensionato e la macchina non gira come dovrebbe. 170ettari di centro urbano collassati; due milioni di metri cubi dimacerie; più di 1500 edifici storici censiti dalla Soprintendenza aimonumenti mortalmente feriti o più o meno gravementelesionati; 73.000 profughi fuggiti da 62.000 edifici (57.000 deiquali privati)… Ogni previsione è stata superata in questatragedia di proporzioni bibliche, benché il terremoto non abbiacolpito di giorno scuole e uffici pubblici. Già il ministro Maroniaveva affermato che secondo lui la ricostruzione non costeràmeno di 14/15 miliardi di Euro! Eppure, l’unica certezza chehanno saputo divulgare i soloni della scienza e della protezione èche un terremoto non è prevedibile e chi afferma il contrario è unciarlatano. Di conseguenza, suggerire (o almeno far trapelare) ildubbio di prepararsi a scappare portando con sé lo strettonecessario, ma scelto con razionalità, dev’esser sembrataun’insidia alla severità accademica della scienza e dei suoi

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Gli autori del libro Emiliano Dante,

Valentina Nanni, Massimiliano

Laurenzi. L’editore Edoardo Caroccia

durante l’intervento del Presidente

del Consiglio Regionale Nazario

Pagano. Gli attori Luigi Diberti,

Tommaso Cardarelli e Antonia

Renzella e Ezio Budini; il Sindaco

dell’Aquila Massimo Cialente alla

presentazione del volume.

pontefici. Questa colpa, perché colpa fu, non sarà mai abbastanzadeprecata. E tuttavia nessuno ha finora pagato una sola oncia perle cose dette; come del resto per lungo tempo, secondo latradizione italiana (diffusa dal Sud al Nord passando per ilCentro), nessuno pagherà per le gravi colpe legate al cemento oal mattone o, più esattamente, al guadagno illecito. Nella grandetragedia storica del 6 aprile –esplosa inaspettatamente permoltissimi aquilani, perché la strategia ufficiale dellacomunicazione aveva scelto la strada suicida d’unafenomenologia sostanzialmente imprevedibile ma non piùpreoccupante d’un consueto sciame sismico– l’evento dei grandinumeri sta anche nella mole ciclopica di tragedie personali,condensate per lo più nei nuclei familiari. Detto diversamente, ilterremoto è stato un disastro spaventoso, una tragedia in cuisono confluite migliaia e migliaia di tragedie, tanto numerosequanti sono i nuclei abitativi vivi (privati e pubblici) della città. E idiari di Emiliano Dante, Massimiliano Laurenzi e Valentina Nannioffrono una sintesi eloquente della vastità e varietà di rovine elutti. Ognuno dei tre ha una sua storia: Dante è docente

universitario atipico per storia e interessi, Laurenzi promessadelle lettere e del mondo dello spettacolo, Nanni è psicologaavviata alla neuropsichiatria infantile. Ognuno racconta a modosuo, ma tutti confluiscono su taluni particolari che, per questo,sono da considerare attendibili, non causati da impressioniindividuali o da preclusioni mentali. Dopo la presentazione diBruno Vespa, dettata da un cuore turbato, Emiliano racconta conil suo stile scanzonato un vagabondaggio tra la gente spaesata,straziata, affannata, che si muove calpestando rovine;Massimiliano traccia storie di rapporti recisi da una mannaia chesi abbatte a più riprese sul collo degli aquilani; Valentina sisofferma sulle piaghe aperte nelle anime della gente di cui il suocuore si fa specchio. Ne esce un mosaico unitario che raffigura ildesolato paesaggio scolpito dal terremoto. Su questo paesaggiodegno dell’Inferno dantesco, si alza come un indistruttibileobelisco la severità, la dignità, l’orgoglio dei cittadini che hannonel carattere la roccia del Gran Sasso e del Sirente. Il “terremotozeronove” ha distrutto una città e il suo territorio. Gli abitantiricostruiranno tutto meglio di prima.

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L’instant book di Paolo Mastri sul terremoto:

un libro-inchiesta che apre oscuri interrogativi

e rivela particolari sottaciuti dall’informazione ufficiale

Speciale L’Aquila

Cronacadi un sisma annunciato

“Lo so e ho le prove” scrive Roberto Saviano apagina 236 di Gomorra. Si pensa spesso aquest’affermazione leggendo uno dei libri

sull’apocalisse che ha collassato il capoluogo regionaled’Abruzzo quel fatale 6 aprile scorso: un libro scritto da PaoloMastri, cronista di rango del Messaggero e, dopo questaesperienza, scrittore di asciutta efficacia dal quale possiamoaspettarci altri titoli, altre sorprendenti rivelazioni. Nelfittissimo panorama dei libri usciti sul terremoto dell’Aquila edel suo territorio, Paolo Mastri s’inserisce con la fisionomianetta e fortemente riconoscibile di un autore capace diparlare alla gente comune e a “quelli che devono intendere”grazie alla sua scrittura immediata, spoglia, eloquente. Indieci capitoli diversissimi per contenuto, ma identici per stileed efficacia, l’autore ripercorre un evento tragico, e senzaenfasi retorica definibile di rilievo storico, dai suoi primiannunci (allarmi inascoltati) all’esplosione devastante nelcuore della notte (ore 3.32), alle conseguenze così violenteche pochi avrebbero potuto immaginarle e che appaiono

assai superiori a ciò che avrebbe dovuto provocare unterremoto di “magnitudo” 5.8, come hanno detto e scrittoillustri scienziati d’accordo con pubbliche autorità inun’operazione che ha tutta l’aria d’una macchinazionefraudolenta.Tre aspetti colpiscono nel libro di Mastri: è un libro inchiestasulla traccia delle inchieste, ormai classiche nel giornalismo,del quotidiano “Paese sera” degli anni ‘70, perché narraavvenimenti che l’autore interroga per capirne l’originenaturale (ineluttabile) o la causa umana (politica o sociale e,quindi, frutto di scelte che hanno connaturata in sé laresponsabilità pubblica); è un libro giallo, o più esattamentepoliziesco, di quelli che piacerebbero (suppongo) a FrancescoMastriani e a Carlo Lucarelli, giacché il racconto stringentedegli avvenimenti è sempre collegato alla ricerca delle causeo delle responsabilità; è un libro verità nel quale quasi ogniaffermazione è sostenuta da un documento ufficiale, da unacitazione controllabile, da elementi reali per lo piùrintracciabili in atti ufficiali e pubblici. Il testo scritto è

3.32 L’Aquila

Gli allarmi inascoltati

Paolo Mastri

Prefazione di Concita De Gregorio,

Presentazione di Nicola Mattoscio

Edizioni Tracce

Fondazione Pescarabruzzo

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corredato da una succinta e sconvolgente documentazionefotografica di Claudio Carella ed è completato da una brevepresentazione di Nicola Mattoscio, Presidente dellaFondazione Pescarabruzzo editrice del libro assieme allebenemerite Edizioni Tracce, da una prefazione luminosa diConcita de Gregorio, direttore dell’Unità, e da un’appendicedocumentale di straordinario rilievo per la sua naturaufficiale e per il suo contenuto. Questa parte conclusiva è per certi versi altrettantodrammatica, in qualche caso perfino di più, che non ilracconto diretto poiché le lettere ufficiali (anche delGoverno), le mappe, gli studi ecc. dicono quanto si sapesse inalcuni centri operativi e quanto s’è nascosto alla popolazioneinerme e incolpevole ma alla fine la vera, unica vittima,assieme a una storia della città irrimediabilmente violata.Toccante è il pio elenco delle vittime: vi incontriamo – nellaloro scheletrica indicazione – storie appena avviate, comequella di Antonio Ioavan Ghiroceanu (nato il 12 Novembre2008!), e la nonna di tutti gli scomparsi, Luisa Brusco (nata il

28 Febbraio 1913) che certamente veglia da qualche partesulle lacrime di tutte le famiglie mortalmente ferite dal lutto.C’è la memoria dolente dei Cora, dei Cinque, dei tanti gruppidi cognomi che ci ricorderanno per sempre nuclei familiaridecimati senza pietà. C’è anche una mia prozia, AngelaBelfatto, giunta come tanti all’Aquila molti anni or sono escomparsa sotto le macerie della sua abitazione in via Sturzo.Il libro, ideato e scritto in pochi giorni, si apre sul sonno degliaquilani, evocando così il capitolo manzoniano di “Carneade,chi era costui?”. In quella notte fatale non dormivano tutti. Hovisto molte famiglie fuggire da casa prima di mezzanotte, enel giro fatto per alcune strade e piazze aquilane prima delletre di notte, ho visto tanta gente vegliare in automobile oparlottare avvolta nelle coperte di lana. Erano i pochi(rispetto all’intera popolazione aquilana) ai quali il falsoottimismo di chi sapeva e ha taciuto o mentito non avevarimosso o alleviato l’ansia imprudentemente e (per fortuna invari casi inutilmente) irrisa con i quotidiani inviti alla calma.

Walter Tortoreto

La presentazione del libro nella sala conferenze

della Cassa di Risparmio dell’Aquila.

Da sinistra l’autore Paolo Mastri, Stefania Pezzopane

presidente della Provincia Dell’Aquila,

Nicola Mattoscio della Fondazione Pescarabruzzo,

Nicoletta Di Gregorio della Casa editrice Tracce

e il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente.

Qui a fianco Paolo Mastri e gli attori Donato Angelosante

e Tiziana Irti che hanno letto brani del suo libro.

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Il libro del fotografo Roberto

Grillo racconta le ferite

di una città e dei suoi

abitanti con rara efficacia

e forza documentaria

Speciale L’Aquila

Vedere per credere

Il lungo cammino dal De Pictura diLeon Battista Alberti a WalterBenjamin (L’opera d’arte nell’epoca

della sua riproducibilità tecnica) è ancheun itinerario sull’evoluzione dellosguardo nel rapporto tra immagine espettatore. Cassirer lo ha riassunto in unincisivo slogan filosofico: una filosofiadella cultura deve esercitare lo sguardopanoramico quando individua le formesimboliche grazie alle quali si manifestalo spirito (Filosofia delle forme simboliche,I, pp.30-31). Si parla d’arte, di formesimboliche, di rapporti immanenti delleforme tra di loro o con un principioesterno; ma il problema centrale èsempre il rapporto tra sentimento dellospazio e forme della suarappresentazione: una spina del nostrotempo che concede spazi sterminati eassai elaborati allo sguardo e silenzisempre più estesi all’ascolto razionale. Simuove in questa direzione la moleimpressionante di raccolte fotografichee Dvd sull’apocalisse che si è abbattutasull’Aquila e sul suo territorio alle 3,32del 6 aprile scorso, dopo una lunga sciadi scosse premonitrici seguite da uninterminabile “sciame di assestamento”.Poiché le foto “simulano”, come sostieneBaudrillard, il sospetto d’una strategia dicomunicazione pubblicitaria è in

agguato, se il prodotto, già di per séseducente, compare nella (reclamizzata)vetrina del dolore, com’è in questoperiodo tutto ciò che riguarda L’Aquila ele sue piaghe. C’è in giro del ciarpameacustico e visivo che passa comeespressione esemplare dell’Aquilaartistica; e l’incompetenza ol’analfabetismo estetico dei pubblicipoteri e dei massmedia sancisconoquesta vergogna con il loro assenso. Perfortuna, c’è del marcio in Danimarca maanche del sano, anzi del terapeutico. ETerrae motus di Roberto Grillo e RenatoVitturini si presenta come terapia deglianimi realizzata mediante le foto:documenti epigrammatici e a trattitraumatici della tragedia che s’èabbattuta sul capoluogo regionale conl’ultimo terremoto e, insieme, grido dirivolta e di speranza. La brutalitàdell’evento spinge gli autori a guardarein profondità, sotto l’apparenza, senzasfumature estetiche e con (sapiente)freddezza narrativa: così il volumescopre nella totale nudità le ferite inqualche caso irrimediabili assieme allapassione che il lutto non ha cancellato. Ilrisultato è frutto non soltanto dicollaudata professionalità ma anche diun’acuta esperienza sensoriale, perché leimmagini raccontano la rovina delle

cose e le tragedie delle persone con ilpalpito umano che si coglie negli scattiin cui campeggiano i superstiti e i lorosoccorritori e con il tono poetico edolente della parte iconografica piùtraumatica, quella delle rovine. Gli scrittiche punteggiano il testo iconograficoevocano con il loro incandescentesmalto emotivo la speranza della vitache trionfa. La forza non è tanto nellefoto isolate quanto nella trama d’unlungo racconto secco, privo di qualsiasisfumatura e privo degli estetismi chespesso connotano i prodotti fotografici.Documento perché raffigurazione delvero, Terrae motus è pura emozione nelsuo sostrato creativo e poetico e nellaricerca dell’immagine esemplare. Lascelta (anche tecnica nella varietà deicampi e degli obiettivi) dà forma a unacittà assassinata, che un paio di voltemostra un indizio di paesaggio intatto,come per alludere all’antico vincolodella città con la natura e alla suacostante visione della montagna.Vengono in mente i versi della recenteraccolta di Cesare Viviani: “Non ècondanna, non è sventura / è natura”. Diconseguenza, nei dettagli dei primi pianicome nei tableaux, l’umanitàcondensata nei visi, negli sguardi, neigesti ci ammonisce sulla tragedia del

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Terrae motus

ore 3:32 L’Aquila 6 Aprile ’09

Roberto Grillo

Renato Vitturini

con un intervento di Maria Cattini

della redazione il capoluogo

edizione esclusiva di 3000 copie, bilingue

Marte editrice

Grafiche Martintype

nostro vissuto, tramato da ciò che siconsuma o si sgretola e perisce. Rispettoad altre pubblicazioni, di ottima qualitàfotografica e sempre drammatiche per lasequenza delle immagini cheraccontano le distruzioni paragonateallo splendore di qualche mese fa, Grilloe il suo collaboratore suggeriscono chela ragione non riesce a giustificare ilmistero delle grandi calamità naturali;essa apre varchi, allarga crepe, ma allafine deve accettare la coscienza deipropri limiti e l’indicibile mistero delvivere. Già nel titolo, infatti, il volumeallude alla nostra tragica fragilitànaturale. Eppure non mancano segni diriscatto: gli angeli sospesi sul cielo di SanBernardino, la tenda con una mammache sorride al figlio e un padre dalsorriso attonito che tiene in braccio ilsuo pupetto di qualche mese, il ragazzoche suona il violino nell’alba spettraleche s’alza su piazza Duomo… ci dicono,con la frase di Spinoza, che la bellezzadel mondo dipende dalla nostraimmaginazione: messaggio artistico,umano, sociale che moltissimi aquilanistanno già vivendo con un oscurooperare quotidiano, mentre le pubblicheautorità stentano a metabolizzarlo e,quindi, ad afferrare il filo d’Arianna.

Walter Tortoreto

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Zero Nove, il giornale

che racconta la vita da sfollati.

Una redazione giovanissima

con pochi mezzi

e tanto entusiasmo

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Speciale L’Aquila

La vocedelle tendopoli

Il 9 luglio scorso, in pieno G8, il Centro Operativo Misto n.2(ovvero il burocratico nome della tendopoli di SanDemetrio ne’ Vestini, a venti chilometri dall’Aquila) ha

vissuto un altro terremoto dopo quello del 6 aprile. Moltomeno pernicioso, naturalmente, ma in grado comunque discatenare un vero pandemonio. È stato quello il giorno in cuiGeorge Clooney, Bill Murray e Walter Veltroni sono arrivati nelpaesino aquilano per inaugurare una struttura eretta proprionella tendopoli di San Demetrio: uno spazio polifunzionale(in acciaio resistentissimo e antisismico, beninteso) destinatoalle inziative culturali, quali proiezioni cinematografiche,spettacoli e laboratori teatrali, attività giornalistiche. Sì, aveteletto bene: attività giornalistiche. È infatti in una delle stanzedella “Sala Nobel per la pace” (questo il nome della struttura)che ha sede la redazione di ZeroNove, il settimanale dellatendopoli di San Demetrio fondato da Giancarlo Gentilucci ecompletamente redatto da tre neo giornaliste tredicenni:Elisa Climastone, Camilla Filauro e Vittoria Nardis. «Abbiamo

cominciato perché volevamo raccontare cos’è la vita neicampi –spiega Camilla– e per far conoscere a tutti le attivitàche svolgiamo. Abbiamo corrispondenti anche da altri campi,da Paganica, Fossa… e altri se ne aggiungeranno, è unaredazione in crescita». Per adesso però sono solo in tre adaver scritto e impaginato il numero zero di ZeroNove, che havisto la luce lo scorso 7 luglio: quattro pagine per sei articolitotalmente realizzati dalle tre giornaliste in erba colcomputer portatile di Elisa. In un articolo si parla del G8, che«rappresenta per noi aquilani la speranza di rinascita dellanostra città. È per questo che ci auguriamo che gli argomentiche verranno analizzati riescano a dare nuovo impulso allanostra comunità». In un altro si racconta il concertoall’Olimpico per l’Abruzzo, con relative domande a PinoDaniele, Gianni Morandi, Fiorella Mannoia e Claudio Baglioni(“Quel giorno abbiamo passato un pomeriggio diverso, senzapensare alle tende blu che colorano il nostro campo dicalcio”); in un altro ancora si racconta la visita degli architetti

In alto, il primo numero

di Zero Nove.

Nella pagina a fianco, da sinistra:

Camilla Filauro e Elisa Climastone,

giornaliste in erba.

A sinistra,

prove di uno spettacolo

nella Sala Nobel per la pace.

Giancarlo Gentilucci e Tiziana Irti, fondatori e animatori della compagnia“Arti e spettacolo”, si sono spesi molto per regalare ai cittadini delle ten-dopoli momenti di svago e spazi per le attività culturali, con l’intento direstituire agli sfollati una parvenza di “normalità” nel caos del dopo-ter-remoto. Circa un mese dopo il sisma, durante una delle tante ore di attivi-tà culturali e ludiche passate con i ragazzi della tendopoli di VillaSant’Angelo, nacque così l’idea di realizzare un giornale che raccontassela vita della gente dopo il 6 aprile, e soprattutto le esperienze di vita neicampi allestiti dalla Protezione Civile. Grazie al sostegno e all’esperienzadel giornalista marsicano Angelo Venti, è nata così dal cuore della tendo-

poli “Sfollati News”, una testata destinata forse a restare nel circuito chiusodel capoluogo se non fosse stata una trasmissione di punta del giornali-smo televisivo d’inchiesta, come Report, a farla salir agli onori della crona-ca. Il celebre programma di RaiTre condotto da Milena Gabanelli, nonsolo gli ha dedicato un servizio, ma ha voluto dare anche il suo contribu-to originale all’iniziativa. Come? Mettendo all’asta i numerosi premi vintinel corso degli anni, e col ricavato consentire l’acquisto di computer, scan-ner e stampanti, macchine fotografiche e telecamere, ovvero tutto quan-to occorre una vera redazione giornalistica per svolgere i suoi compiti inpiena autonomia. «C’era un piccolo gruppo –ci ha raccontato Milena

PICCOLI GIORNALISTI CRESCONO

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“che hanno affiancato i tecnici della Soprintendenza per laschedatura dei beni artistici del nostro territorio […] ci hannoesposto le loro impressioni riguardo i monumenti colpiti dalterremoto: sono rimasti senza fiato, impotenti di fronte a taledevastazione”; un altro informa sullo stato dei lavori per lacostruzione delle casette di legno destinate ad accogliere iproprietari delle case più danneggiate. L’unica supervisioneda parte degli adulti riguarda «la punteggiatura e gli errori diortografia», spiega Tiziana Irti, che con Gentilucci è co-fondatrice del giornale e membro della compagnia “Arti espettacolo”. «Non interveniamo mai su quello che desideranoraccontare le ragazze, né su quel che scrivono; la nostra è unafunzione puramente di supporto, mai di orientamento.Lasciamo che siano loro a usare il mezzo come megliocredono, e a scoprirne le potenzialità man mano che cilavorano». Dopo la pausa estiva si comincerà a pieno regime,con un servizio sull’inaugurazione del teatro; della gita svoltaa Calenzano, dove i ragazzi di San Demetrio hanno vissuto

dieci giorni ospiti di alcune famiglie del luogo; dei “ragazzidel monumento”, un gruppo di giovani che organizzanoattività culturali e di svago per la gente delle tendopoli.Un’esperienza che forse potrebbe proseguire in futuro?Camilla dice di sì, Elisa invece vorrebbe fare l’avvocato: «Nonsono ancora sicura che questa sia la strada che vogliointraprendere, ma chissà…». Certo che a leggere quel chescrive in prima pagina, nel suo articolo “La vita nelletendopoli”, viene da sperare che ci pensi un po’, prima diabbandonare il giornalismo: «Dopo due mesi dal sisma del 6aprile, L’Aquila ha cambiato il suo volto, ma gli abitanti sonoimmersi nella voglia di ricominciare a volare. Nelle tende nonc’è più quell’intimità che c’era prima tra le mura domestichedelle nostre case. La vita nella tendopoli è molto diversa daquella che facevo nella mia casa, gli orari non sono più glistessi, si sta in fila per la colazione, pranzo e cena; anche per ladoccia, bisogna stare sempre in coda. Il lato positivo è che c’èsempre qualcuno pronto a regalarti un sorriso». F.G

Gabanelli– con una bella iniziativa, ma non aveva i mezzi per realizzarla.Mentre mi raccontavano questa piccola storia guardavo i tre scaffali contutti i nostri premi impolverati, e ho pensato: “quanto potrebbero valere seli mettessimo all’asta? Ci scappano un po’ di computer e stampanti perquesti ragazzi?” L’idea è nata semplicemente così». Cosa si aspetta da loro? «Conoscendoli di persona ho pensato che potreb-be essere per loro una bella opportunità, anche in considerazione delfatto che abbiamo messo nelle mani del sindaco una piccola borsa di stu-dio di 3mila euro. Funziona così: il sindaco si impegna a leggere tutti inumeri e ogni volta premia con 100 euro l’articolo migliore. Un modo

per cominciare a lavorare sul merito e a far scattare la voglia di prenderel’iniziativa sul serio». Questa esperienza potrebbe far luce, dall’interno, sualcuni aspetti del dopo-terremoto sfuggiti o sottaciuti dall’informazioneufficiale. Che ne pensa la Gabanelli? «Non lo so se questi giovani sarannoin grado di far emergere problemi più grandi di loro. Certamente rimar-rà la cronaca di uno sfollamento e un’ottima esperienza lavorativa eumana, che potrebbe influire sulla loro formazione. Mi sembrerebbe giàun successo. L’informazione in genere sulla vicenda aquilana, per quelpoco che so, è “timorosa”. Non è mai successo in nessuna situazione ana-loga».

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Progettare il futuro delle imprese più piccole dopo la tragedia del 6 aprile:

l’imperativo è fare squadra,perché il destino di uno è quello di tutti

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di Sergio D’Agostino foto Antonella Da Fermo

Basta piangersi addosso. Basta passare le giornatesperando solo in un aiuto “esterno”. La solidarietà vabene, ma non potrà certo reggere troppo a lungo, e

soprattutto: non riuscirà a garantire un futuro dignitoso per sé ele proprie imprese. La strada della ricostruzione –dicono ormai tanti esponenti delmondo della piccola impresa e dell’artigianato dell’Aquila, unmondo messo in ginocchio dal sisma del 6 aprile scorso– passaper la capacità di ciascuno (e di tutti insieme) di progettare ilproprio futuro. Altre strade non esistono: da una tragedia,insomma, può nascere forse l’opportunità di ripensare se stessi,un po’come accade dopo una grave malattia.Eppure, le cifre sono lì impietose a ricordare di cosa sia fatta larealtà, quanto sia difficile progettare e progettarsi, soprattuttoquando il mondo attorno è crollato, e il crollo tutto è tranne cheuna metafora. Perché la contabilità del sisma è quella che è, ed èsotto gli occhi di tutti: strutture distrutte, oppure gravementelesionate, oppure ancora inagibili o inutilizzabili perché inseritein contesti del territorio colpiti duramente. Macchinari eattrezzature resi inservibili. Mercato locale, che è poi quello diriferimento per tantissime micro-imprese, pressoché azzerato. Ce ne sarebbe di che gettare la classica spugna, un gesto che nelpugilato significa resa di fronte all’avversario più forte, ma cheagli aquilani non si addice, visto che sono tipi da rugby, uno sportin cui l’imperativo è, dopo essere caduti, rialzarsi per andare inmeta. Anche quando si è ammaccati: e se devi fare a sportellatecontro un avversario più forte, pazienza, non resta che stringerepiù forte il pallone al petto e partire a testa bassa.Per qualcuno, la meta significa oggi reinventare pressoché da

capo tutta la propria attività. Ci ha pensato bene uno comeGiulio Cerqua, orafo, che prima di rimettere casa all’Aquila, hagirato mezzo mondo, conquistando nel settore una solidaposizione anche grazie a qualche “brevetto” particolarissimo,come il suo “Look shine” che permette di indossare un gioiellooriginalissimo e personalizzato sulle unghie. Ora, con la bottegadi via Mazzini impossibile da usare perché incastonata nel cuoredel capoluogo, ovvero in quella “zona rossa” che le previsioni diricostruzione indicano come davvero la più complessa daaggredire, ha pensato che a fare la forza non possa essere altroche l’unione. Meglio se condita con un po’ di fantasia, comedimostra il progetto che illustra: «Tanti artigiani sono nelle miestesse condizioni, ed allora solo mettendoci assieme possiamopensare di progettere convenientemente il nostro futuro. Come?Dando vita, ad esempio, ad un tecno-polo delle produzioniartigiani legate all’arte orafa, solo che anziché lavorare in propriopotremmo diventare “contoterzisti”. Ovvero, utilizzare le nostreprofessionalità al servizio di grandi gruppi del settore, chesarebbe facile convincere di trasferire all’Aquila alcune loroproduzioni. Per adesso il mio progetto ha trovato una tiepidaaccoglienza tra i colleghi, prevalgono ancora visioniindividualiste della risposta alla crisi che ci ha colpito».Antonella Mantini, aquilana, aveva scelto Santo Stefano diSessanio, che tutti conoscono come uno dei più riusciti modellidi restauro conservativo e di creazione di un sistema turistico ad“albergo diffuso” per la sua attività di produzione di oggetti. Uninvestimento lungimirante, viste le fortune mediatiche delmagico borgo, che però adesso sono da ripensare: «SantoStefano è agibile, è agibile la mia bottega, solo che i turisti si sono

Mani che parlanoSpeciale L’Aquila

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dati alla fuga per paura del terremoto. All’Aquila, invece, mi ècrollato il laboratorio, per cui oggi devo letteralmente impazzireper mettere assieme le mie produzioni. Sono sfollata a Silvi, vadoall’Aquila nel garage di mia madre per produrre parte dei mieioggetti e il fine settimana apro bottega a Santo Stefano persperare di vendere una scatola decorata. Per quel che primamettevo assieme in un solo posto, adesso me ne servono tre».Anche per lei, unica artigiana abruzzese ospite con Cerqua delrecente “Brixia Expò”, manifestazione dedicata dalla città diBrescia all’artigianato, il futuro non può essere solo dipinto con icolori della solidarietà: «È cambiata la vita, dovranno cambiareanche i prodotti, da reinventare a seconda delle esigenze dimercato». Dall’oggettistica al food, i problemi restano identici.Terra di gusti raffinati ed espressione di alcune delle piùrinomate tipicità abruzzesi, L’Aquila deve ora reinventare unaprospettiva per le piccole imprese che su quel settore hannoinvestito, dando vita a una rete di laboratori qualificati cherealizzano dolciumi ispirati alla tradizione: un ingrediente cheben si miscela con il fattore qualità, caro a una fascia sempre piùampia e consistente di consumatori. Lucina Calvi a Rocca di Mezzo ha il suo laboratorio “NonnaPapera”, dove applica a torte e biscotti il suo credo: recupero dellatradizione e dei suoi ingredienti-simbolo (come il farro),attraverso l’uso di spezie particolari (zenzero e cannella),guardando all’agricoltura biologica: «Questa tragedia –dice–deve essere l’occasione per creare tra noi produttori una rete ingrado di renderci tutti più competitivi verso la grandedistribuzione. Con la crisi seguita al terremoto o siamo in gradodi dare una svolta al nostro lavoro o dobbiamo sapere che non si

presenterà mai più un’altra occasione. Ho una dipendente, facciofatica a immaginare un futuro fatto di piccoli spezzoni di lavoro,di fine settimana o mercatini. Credo che la via sia quella dimetterci assieme, istituzionalizzare una filiera che di fatto esistegià». Altre aziende, stessi concetti. Per Sergio Castri della“Dolceria Abruzzo”, anch’essa specializzata nel settore dellapasticceria con sede a Pianola, «le tante manifestazioni disolidarietà che abbiamo ricevuto in questi mesi fanno certopiacere, ma per le piccole imprese adesso si tratta di voltarepagina. Io, per esempio, ho il laboratorio agibile per laproduzione, solo che devo immaginare altri scenari per le mieattività. Prima avevo come mercato di riferimento la ristorazionedell’Aquila e dei suoi dintorni, ma adesso con tutti gli esercizichiusi a chi vendo? Per questo, assieme agli altri, è necessarioaprire nuovi mercati sulla costa, individuare nuovi punti venditain cui i nostri prodotti possano essere apprezzati e venduti».A Scoppito ha sede la cooperativa “Gli infusi dell’Eremo”,specializzata nella rielaborazione e riproposizione di antichericette della tradizione monastica aquilana: con lo zafferano e iliquori estratti dalle erbe migliori sono i prodotti-simbolo. Nataall’interno del perimetro del Consorzio celestiniano, promossoper dare continuità nel tempo alle attività che ruotano attorno airiti della Perdonanza Celestiniana, la cooperativa –dice GianniAgnesi– «dopo il sisma deve ormai profondere un impegnodoppio». Un impegno che tuttavia ha trovato già modo diorganizzare una rete distributiva e di vendita moderna edefficace, con una presenza sui mercati non solo dell’Abruzzo, maanche di regioni come il Lazio e l’Umbria. La strada, insomma,sembra davvero quella di aprire nuovi orizzonti.

Alcuni artigiani aquilani con i loro prodotti durante una manifestazione a Pescara.

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Sophie: i Giochi del Mediterraneo l’hanno rivelata a tutti.

Piero: Sanremo lo ha fatto conoscere al mondo.

Michele: è entrato nel tempio italiano del Jazz.

Ecco tre giovani promesse (mantenute) dello spettacolo,

unite da un palco comune: quello dell’affermato Caffé Concerto

organizzato dall’ateneo “G. d’Annunzio”

di Fabrizio Gentile foto Claudio Carella

Personaggi

Campus

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Piero Mazzocchetti non ha certo bisogno di presentazioni: perlui parla la sua decennale carriera, cominciata nei piccoli club inGermania dove a piccoli passi ha conquistato le vette delle clas-sifiche e vinto il disco d’oro, e culminata (per ora) nell’apparizio-ne all’Ariston di due anni fa. All’attivo ha anche un disco-tributoa “Big” Luciano Pavarotti, uscito lo scorso dicembre, che haavuto ottimi riscontri sia di pubblico che di critica. Ma se dellacritica al giovane tenore importa poco, ben più alta è la consi-derazione che ha del pubblico: «Il pubblico è la ragione per cuifaccio questo mestiere. È come una bella donna, va corteggiatae amata con generosità, va conquistata giorno per giorno, è un

di StarPICCOLO GRANDE TENORE

PIERO MAZZOCCHETTI

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giudice imparziale dal quale mi aspetto di essereamato quando dò il meglio di me e detestato quan-do invece lo deludo». Parole che suonano quasi fintroppo sagge in bocca a un artista che fa della sem-plicità la sua bandiera, dello spirito di sacrificio il suovanto (“credo sia una cosa di cui andare orgogliosi”),e che coi sentimenti ha avuto finora un rapportopuramente lavorativo: «Canto l’amore, sono innamo-rato del sentimento ma non di una persona in parti-colare. Anzi, diciamo che mi sto lanciando sul merca-to…» Ride e continua: «Quando a Sanremo mi èstato chiesto “e se avessi a fianco una bella donna?”ho risposto che la mia amante era la musica, susci-tando un coro di scetticismo per una replica giudica-ta troppo diplomatica, quasi banale. Ma è la verità; edè anche vero che a trent’anni comincio a pensareanche a farmi una famiglia, a diventare un uomo disuccesso oltre che un cantante di successo». Già, ilsuccesso. Una cosa ben diversa dalla popolarità, che«consiste nell’essere un viso conosciuto, nell’appariresui media e nell’essere riconoscibile per strada.Questo non ha nulla a che fare col successo, cheinvece è frutto dell’impegno, della passione e ditanta disciplina, e che si misura col numero deglispettacoli che fai e con quello dei dischi che vendi, edecisamente mi interessa di più». Un assaggio dipopolarità gliel’ha data naturalmente la vetrina diSanremo: «Nei quattro o cinque mesi successivi nonpotevo quasi uscire di casa senza essere immediata-mente riconosciuto e assediato dai fans. Sono effetticollaterali di una manifestazione che –contrariamen-te a quanto credono alcuni– non è un punto di arri-vo ma di partenza, perché ti apre una serie di oppor-tunità e di platee che altrimenti è difficile raggiunge-re, specialmente con la lirica. Oggi l’entusiasmo perl’esibizione sanremese si è decisamente raffreddato,e –placati gli animi– restano attorno a me solo i veriestimatori, quelli che hanno capito chi sono: una per-sona che si propone sul palco esattamente com’ènella vita. Per conquistare il pubblico ci vuole sinceri-tà, non puoi mentire». A Sanremo ci è arrivato graziead Adriano Aragozzini, il suo produttore e mentore,almeno in campo nazionale ed internazionale «alquale devo tutto. È un amico, oltre che un grandeprofessionista che ha creduto in me fin dall’inizio». Ilsuo mentore in Abruzzo è invece un altro personag-gio che ne ha notato il talento in tempi non sospettie lo ha valorizzato: Marco Napoleone, general mana-ger dell’Università “d’Annunzio”, che nel 2006 gli offrìdi esibirsi durante il tradizionale appuntamento delCaffé Concerto: «Sono passate le amministrazioni,sono caduti i governi, ma Napoleone e il RettoreFranco Cuccurullo sono ancora lì, incrollabili: unmotivo c’è. Hanno saputo fare dell’Università unattore imprescindibile della scena culturale, oltre che

un motore irrinunciabile dell’economia locale. MarcoNapoleone poi è un altro uomo straordinario, dallegrandi capacità manageriali, in grado di ottenere ilmeglio dalle persone che lo circondano. Sa curare ilsuo lavoro come il suo hobby con lo stesso impegno,e adoro collaborare con lui e suonare con l’Orchestrae il Coro della “d’Annunzio”». Grande dimostrazioned’affetto da parte di un cantante che ha duettatocon Carreras e che è stato accompagnato dallemigliori orchestre del mondo. «Quando la gente midice “Piero, ma perché fai il Caffé Concerto? A che tiserve?” io rispondo che mi diverto, e che il miomestiere è fare il cantante, e non ci trovo niente dimale a esibirmi su palchi meno prestigiosi: il pubbli-co di Sanremo e quello del Caffé Concerto è lo stes-so, è lì per ascoltare quello che faccio. E il mio mododi stare sul palco è identico, sia che mi trovi alMadison Square Garden di New York o nel campusdell’Università». Divertirsi a stare in scena è fonda-mentale, per un artista. Così come lo è provare quellapaura sottile, improvvisa, che precede ogni esibizio-ne: «È la paura di deludere le aspettative del pubbli-co. Mi viene sempre, e guai se non venisse: il giornoche dovessi accorgermi di non avere paura signifi-cherebbe che penso di essere arrivato, e allora dovreismettere di fare questo mestiere». L’ha avuta anche lo scorso 26 giugno, prima di canta-re l’inno ufficiale dei Giochi del Mediterraneo duran-te la cerimonia di apertura, allo Stadio Adriatico: «Dalpunto di vista emotivo è stata una bellissima espe-rienza, e la manifestazione è stata un successo. Sono onoratissimo di aver dato il mio contributo,perdipiù con un pezzo scritto da Franco Migliacci edal premio Oscar Luis Bacalov». Il rapporto con losport per Piero nasce molti anni fa: «In Germaniasono stato il cantante ufficiale del Bayern Monacoper sette anni, gioco molto a tennis e a calcio, faccioanche parte della nazionale attori (non di quella deicantanti: in quanto tenore sono più attore che can-tante). E conosco bene i grandi personaggi dellosport abruzzese: Massimo Oddo, che giocava nelBayern, Fabio Grosso, e Danilo Di Luca e JarnoTrulli… Faccio sport anche quotidianamente, curo lamia voce curando il mio fisico con una vita sana ilpiù possibile. Ma mi piace socializzare, adoro man-giare fuori con gli amici e mi concedo anche unabuona bottiglia di vino, non sono un eremita. Soperò che il 50% della mia resa sul palco è data dallaforma fisica, quindi sto molto attento». E lo sport èanche nel futuro prossimo del giovane tenore: «Sonostato scelto dalla nuova società come cantante uffi-ciale della Pescara Calcio, e il primo compito che ho èdi “rifare il trucco” all’inno. Credo che non lo stravol-gerò: mi piace, e non ho intenzione di privare i tifosidi trent’anni di storia».

«Successo

e popolarità

non sono

la stessa cosa.

Io mi ritengo

un cantante

di successo»

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«Faccio sport

ogni giorno.

Curo la mia

voce facendo

una vita sana,

ma non

disdegno

le serate

con gli amici»

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Sophie Lheureux in alto con Mario

Pescante, Franco Cuccurullo e Amar

Addadi Presidente del Comitato

Giochi del Mediterraneo.

Sopra con Mogol

Voce: calda, morbida, avvolgente. Caratterizzata daquel tipico accento che hanno i francesi, che a voltesuona un po’ caricaturale ma che in lei diventa esoti-smo puro, intrigante. Una voce che hanno ascoltatotutti, durante i Giochi del Mediterraneo, la ribalta piùimportante con la quale si sia confrontata finora. Etutti, durante le cerimonie d’apertura e chiusura,hanno potuto vederla: bionda, alta, snella e profes-sionale. Sarà più la voce o il suo aspetto a farne unadonna così affascinante? Sorpresa: quel che colpiscedavvero, in questa splendida figlia d’oltralpe, è la suaeleganza, i suoi modi gentili, e la sua capacità diessere con altrettanta padronanza del mestiere, tra-duttrice di francese, docente dell’Universitàd’Annunzio di giorno e impeccabile presentatrice dieventi e spettacoli di sera. Una doppia vita cheSophie Lheureux –anche il nome fa la sua parte nelgioco– conduce con equilibrio: «La mia realizzazionece l’ho già, dal punto di vista professionale, e questomi consente di concedere qualcosa alla mia vanità–dice– senza per questo montarmi la testa. Quellodello spettacolo è un mondo effimero». Cresciuta aLille, in Francia, in una famiglia di professionisti(padre e fratello ingegneri, sorella imprenditrice inGermania) Sophie è approdata in Italia dieci anniorsono, quando al termine degli studi le fu offertal’opportunità di un’esperienza all’estero. Una serie difortunate coincidenze la portarono a L’Aquila, dovetrovò subito lavoro come insegnante di francese:«Un anno dopo, invece di tornare in Francia, mi tra-sferii a Pescara dove cominciai a lavorare per alcuneaziende private. Tenevo corsi di lingua francese elavoravo come traduttrice. Poi nel 2002 ho iniziato lacollaborazione con l’Università, e oggi lavoro pressola storica Facoltà di Lingue. L’Ateneo di Chieti-Pescara ha un ruolo di primo piano nell'organizza-zione di eventi culturali, siano essi legati allo sport oallo spettacolo, comunque è uno degli attori princi-pali della scena culturale metropolitana. È una carat-teristica che ne fa un fenomeno quasi unico, direi».Lo spettacolo ce l’ha nel sangue, ereditato da una ziache lavorava per l’Opera di Parigi: «Mi sono semprenutrita di spettacolo. Ma è un mondo precario, doveè difficile guadagnarsi da vivere, e dato che sonosempre stata una brava alunna, i miei genitori mihanno spinto a studiare, e devo riconoscere che èstato un bene. Ora ho una solida attività didatticaalla quale posso affiancare altre cose che soddisfano

le mie esigenze spirituali, la mia voglia di palcosceni-co. Mi fu chiesto anni fa di presentare il CaffèConcerto, e così nel 2006 ho cominciato a lavorarecol Coro dell’Ateneo. Proprio durante la mia primaedizione ho avuto modo di condurre la serata conun grande professionista dello spettacolo comeFabrizio Frizzi, e di conoscere Piero Mazzocchetti,che allora rientrava dal suo fortunato periodo inGermania, ma non era ancora andato a Sanremo. ColCoro siamo andati anche a Parigi, è stata una bellissi-ma esperienza. Ho fatto anche una tournée inAbruzzo con Giò Di Tonno e Simona Molinari, ancheloro prima che andassero sul palco dell’Ariston».Fino allo scorso giugno, quando è stata la voce e ilvolto della manifestazione più importante della sta-gione, i Giochi del Mediterraneo: «Ho seguito Addadie Pescante per tutto il periodo dei giochi e per ledue cerimonie, di apertura e di chiusura, oltre adaver curato le traduzioni della guida e lo speakerag-gio. È stata una bellissima esperienza lavorare inun’organizzazione così complessa nella quale erapresente un team di grandi professionisti». È duran-te i Giochi che Sophie si ritrova a fianco di PieroMazzocchetti: «Tra di noi c’è grande sintonia: lui haun pubblico eterogeneo e non ha il fisico da tenore,ma ha una voce meravigliosa e una grande umiltà.Ha venduto 200mila dischi e qui in Abruzzo non sisente... Ma si sa, nemo propheta in patria». Sempre iGiochi del Mediterraneo l’hanno portata indietro neltempo, facendola tornare all’Aquila dopo dieci anni:«La prima volta è stata il giorno dell'inaugurazione,con Addadi (per il quale è stata interprete ufficiale) ePescante. Non ero più tornata in quella che è stata,seppur brevemente, anche la mia città, e rivederlaora dopo il terremoto mi ha colpita molto. Appenaho visto la piazza del mercato –che ricordo semprevivacissima, movimentata, piena di gente e di colori–completamente deserta, mi ha colto un senso dioppressione. Quel che spaventa, che toglie il respiro,è il silenzio. Non volano neanche gli uccelli, nel cielodell’Aquila. Mi sono commossa».Lacrime che sono anche segno di una comunanza,di un senso di appartenenza, di un’abruzzesità chele è entrata nel cuore, che la veste come una secon-da pelle: «Sento molto vicini gli abruzzesi, ridiamodelle stesse cose. C’è una somiglianza anche lingui-stica, il che aiuta. Certo, le differenze ci sono, ma hostretto in questi anni molti rapporti d’amicizia. Eadoro Pescara, una città davvero a misura d’uomo,rassicurante, a scapito delle grandi dimensioni; mipiace andare al mercato, girare in bicicletta, a piedi.La qualità della vita è molto alta».E quando lo dice con quell’accento, non si può fare ameno di crederle.

OUI,JE SUISSOPHIE LHEUREUX

«Sento molto

vicini gli abruzzesi,

siamo capaci

di ridere delle

stesse cose»

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Giovane e talentuoso pia-nista nato trentacinqueanni fa a Sant’Eusanio delSangro, Michele Di Toroha stregato le platee ditutta Italia col suo stileunico, capace di passareda Mozart a Keith Jarrettper concludere con AlanMenken, tutto nello stes-so brano. È un artista del-l’improvvisazione, mae-stro del crossover, le sue

dita danzano sulla tastiera come una pioggia dimicroscopici diamanti. Giunto con From The Sky alquinto lavoro discografico ufficiale (ma è uscitaanche una sua compilation in edicola) l’astronascente del jazz italiano si prepara a valicare iconfini nazionali per affrontare prestigiosi palchieuropei e non solo: Canada, Argentina, Giapponestanno per assistere alle sue esibizioni a base dicommistioni musicali e culturali, una fusionearmonica tra mondi musicali apparentementediversi ma legati tutti da un denominatore comu-

ne, la qualità. «La musica –spiega Di Toro– è sem-pre musica, e la musica di qualità non può essereracchiusa in un genere. Ho ascoltato e ascolto ditutto, non pongo limiti alle mie fonti di ispirazio-ne: solo così posso esercitare appieno la mia crea-tività». Una filosofia che paga, visto l’apprezza-mento ricevuto da personaggi della musica clas-sica e del jazz quali Maurizio Pollini, EnricoPieranunzi, Paolo Fresu, Enrico Intra, ClaudioRicordi, fino a Giulio Rapetti in arte Mogol, che neha elogiato le qualità durante l’ultima edizionedel Caffé Concerto. Sì, perché Michele, contraria-mente a molti altri talenti abruzzesi, non è solouno che parte, ma anche uno che torna. «È laterza edizione del Caffé Concerto cui partecipo, eogni volta è un piacere. In Abruzzo suono spesso,credo che per un artista sia bello essere ancheidentificabile con un territorio, e non ho mai rin-negato le mie radici. Vivo tranquillamente traMilano e la costa dei Trabocchi da più di diecianni». E in attesa di concretizzare anche unimportante progetto in Giappone, si concede ilsuo ultimo successo: una serata al Blue Note, iltempio milanese del jazz, per una ulteriore consa-crazione della sua abilità e della sua capacità dispaziare non solo tra i generi musicali ma anchetra le platee più diverse. Segno inequivocabile diuna professionalità che lo mette a suo agio tantodavanti al selezionatissimo pubblico della classicacome a quello più smaliziato del jazz. E che glipermette, ogni volta, di regalare al suo pubblicoserate indimenticabili.

IL PIANISTASCATENATOMICHELE DI TORO

«Mi piace

partecipare

al Caffé Concerto,

è un’emozione

suonare

col Coro

e con l’Orchestra

dell’Ateneo, sono

bravissimi »

Michele Di Toro durante

l’esibizione al Blue Note di Milano

lo scorso 8 settembre.

(Ph. Lelli e Masotti)

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Cinque lettere

sconosciute

fanno luce sui

drammatici anni

tra il volo

su Vienna

e l’impresa

di Fiume

Gabriele d’Annunzio

Di certo è un caso, come suol dirsi, più unico che raroimbattersi in tre lettere inedite di Gabriele D’Annunzio,appese sottovetro a mò di quadretti, ingiallite e

dimenticate sulla bianca parete di un ingresso, in occasione diuna visita oltretutto casuale.Ma nessuno sguardo pur distratto e superficiale avrebbe potutosottrarsi alla straordinaria attrazione della calligrafia del Vate.Le lettere sono fortunosamente intatte ed inedite, e dopo unapersonale ricerca se ne rintracciano altre due dello stessoperiodo (1918-1920), anch’esse indirizzate all’ingegnerGiuseppe Brezzi (1878-1958), al tempo direttore generaledell’Ansaldo di Torino, nonchè direttore generale delleAcciaierie COGNE (Aosta)e Senatore del Regno, definito dal Vate“ l’ingegnere dai molti ingegni”.Dalle loro date,(due del 1918, due del 1919, una del 1920) lecinque lettere si situano in un periodo cronologico da definiredrammatico e tra i più importanti della vita del poeta.Sono gli anni della guerra, del volo su Vienna (progettato sindall’ottobre 1915 ed infine realizzato il 9 agosto 1918) edell’impresa di Fiume (conclusasi drammaticamente il 26dicembre 1920 con la città assediata a suon di cannonate allequali il Vate scampò miracolosamente lasciando subito poi lacittà il 18 gennaio 1921), anni vissuti da D’Annunzio in primapersona nel rischio di eventi bellici tra i più avveniristici, quale fuil suo protagonismo aereo su un biposto SVA “dall’alaresistente”. Di eccezionale interesse la sua lettera datata Venezia25 giugno 1919, nella quale si concentra il nodo di ogni sua

Il Vateinedito

di Annamaria Cirilllo

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futura possibilità di volo; egli così ricorda all’ingegner Brezzi :“...nel settembre 1917 feci atterrare un Caproni e compii noveore ed un quarto di volo consecutive, dopo questa provaconvincente il generale Bongiovanni mi promise che sel’impresa su Vienna fosse stata tentata, io l’avrei condotta, ebbialfine l’ordine di partire, ordine subito ririrato senza ragione, inseguito a non so quali congiure del vecchio regime.” Continuapoi, accorato, nella esplicita richiesta, rivolta, come“supplicazione”, all’ingegner Brezzi di voler egli con urgenzamodificare un aereo in un biposto, adattandolo appositamenteper lui, (che non era un pilota da caccia e non possedeva ilbrevetto civile), alleggerendo soprattutto le ali del “veivolo”(questo il nome latineggiante dato dal Vate all’aereo) epermettendo così un ben più lungo periodo di volo che non lenormali due ore, dovendo anche tener conto che un milione diitaliani avevano già sottoscritto le liste di finanziamento (di ciòfu promotore Salvatore Lauro) finalizzato alla donazione allaSquadriglia S A di cinque o sei Sva, tra cui uno biposto “...i qualine compirebbero meravigliosamente la forza diversa.”La lettera conclude il suo appello con le domande “Ha ella gliapparecchi (cinque monoposti e un “biposto” pelcomandante)?”, “È disposta ad agevolare la compera? Mi dianotizie quanto prima”.Le altre quattro lettere sono tutte collegate agli stessiavvenimenti di quel periodo storico, e parimenti incisive inquanto rivelano particolari inediti. Nella lettera datata 14 luglio1918 il Vate confida all’ingegner Brezzi il suo dolore “per lacruda perdita del capitano Bourlot” suo compagno di volo sul

biposto e ricorda i momenti del volo quando “chini sopra lecarte divoravamo la rotta perigliosa...” “ E ora?..Che farò? Chi saràil mio compagno? “. La lettera datata 18-1919, senza citazionedel mese, comunica all’ingegner Brezzi l’offerta di una medagliainviatagli quale riconoscimento di merito “... a chi ci diede l’alaresistente ”. Medaglia affidata per la consegna ad AntonioLocatelli, un valente aviatore al quale D’Annunzio, dal Vittoriale,nel 1936, dedicò (post mortem) una lettera elogiativa di ben 12pagine. C’è poi anche una lettera di Buon Natale, datata 23 XII1919, in cui aggiunge ringraziamenti per quanto fatto in favoredella causa e in specie per ”...il lavoro (preziosissimo) di Dionati edei sei suoi operai” ed agli auguri abbina un altisonante “salutofraterno di tutte le teste di ferro.” L’ultima lettera reca la dicituraFiume d’Italia 30 gennaio 1920, “d’Italia” quasi fosse un fatto giàcompiuto. Egli invia il suo elogio “...nel nostro campo di Tomba,ilSuo nome, caro Brezzi, è onorato come quello di un patrono.Credo che entriamo in un periodo di azione. Prepariamo lenostre mitragliatrici e le nostre bombe. La prima salve sarà inonor Suo”. E’ da notare, pur in questo piccolo corpus di cinquelettere, come il Vate utilizzi spesso il linguaggio grintoso e ditono rivoluzionario dei futuristi, ponendosi sulla sciadell’innovativo movimento (nel 2008 già 100 anni dallapubblicazione del manifesto) ed alcuni collegamenti con essopaiono essere premessa alle imprese dannunziane (purtenendo conto di momenti di contrasto al movimento da partedel Vate). Ad esempio le espressioni “l’ala resistente”,“prepariamo le nostre mitragliatrici e le nostre bombe”, “siamopur sempre nella lotta”, “..il saluto fraterno di tutte le teste di

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ferro” esprimono idee interventiste, ricche di un ardore chepare marciare di pari passo con l’azione futurista. La sintoniaappare reciproca e la considerazione condivisa. Già nel 1903 enel 1908 Gabriele D’Annunzio venne molto elogiato dal teoricodel Futurismo Filippo Tommaso Marinetti che gli dedicò duelibri editi a Parigi quali “Gabriele D’Annunzio intime” e “ LesDieux s’en vont, d’Annunzio reste” (con sette edizioni). InoltreMarinetti, durante il ventennio fascista, si recò a Pescara adomaggiare la casa natale di D’Annunzio e quando questi, il 22agosto 1897, tenne il famoso “Discorso della siepe” per tentarela scalata al parlamento, corse a Pescara per ascoltarlo. Il Vate fueletto Deputato per la XX Legislatura nel collegio di Ortona, laqual cosa ha sempre fatto equivocare la storiografia che perdisinformazione ha ignorato che il discorso fosse stato tenuto aPescara e non ad Ortona, dove venne invece eletto. Non restache ringraziare i proprietari delle missive: Enzo Martocchia diPescara, noto vignettista nonchè buon pittore e scrittore esoprattutto Umberto Piovano, stimatissimo collaboratore edamico dell’ingegner Brezzi, nonchè al tempo giovane SegretarioGenerale della Ditta Adamas di carburi (tungsteno e metalliduri) di Torino, che ha fornito preziose informazioni sul periodostorico. Siamo loro molto grati anche della stima e fiduciaaccordataci con l’affido delle preziose lettere dannunziane.Ultima nota: lo scorso 12 settembre è stato celebrato ilcentenario del volo su Vienna e dell’impresa di Fiume. Unacerimonia ben articolata, presentata dall’assessore alla culturadel Comune di Pescara Elena Seller alla presenza di tutte leautorità.

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Biagio Bocchetti, direttoregenerale della Iac Rodrigo

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Due marchi –Rodrigo (che occupaun segmento di mercato medio-alto in tutto ciò che riguarda

l´abbigliamento “esterno” maschile) eAlan Devis (la cui offerta è invececircoscritta a camiceria, maglieria ejersey)– puntati come navi corsare sulmercato dell’abbigliamento griffato, conl’obiettivo di strappare quote crescentidi pubblico alla concorrenza piùblasonata, grazie a un rapporto piùequilibrato tra qualità e prezzo. Unfatturato che veleggia attorno a 25milioni di euro, il 20% dei quali procuratidal mercato estero. Ottantacinquedipendenti. Una presenza già piuttostodiffusa sui mercati europei di Russia,Polonia, Svezia, Norvegia, Danimarca eBenelux, ma con occhi che giàaccarezzano l’impero cinese. Profilo di un’azienda, la Iac, la cui vicendaindustriale nasce da lontano (l’iniziodegli anni Sessanta), ed è riuscita adattraversare indenne –anzi:rafforzandosi– crisi e ristrutturazioni

varie. Un’azienda che ha scritto, caso piùunico che raro, una pagina da ritagliare econservare nella storia dell’industriaitalica: quella in cui lo Stato arriva edanziché fare danni, anziché trasformareuna Ferrari in una Trabant, come succedespesso, riesce a operare il miracoloopposto. Una azienda che, tornata sottoil controllo privato, guarda al futuro conrinnovata fiducia.Vale allora la pena ripercorrere la stradaseguita sin qui dalla Iac, con quello chene è memoria storica e oggi uomo piùrappresentativo, il direttore generaleBiagio Bocchetti: «Ho vissuto in primapersona gli ultimi 28 anni di questaazienda: dal 1981 come direttoreamministrativo e finanziario, dal 1998con la responsabilità della direzionegenerale. A giugno la Iac compirà il suo48esimo compleanno, traguardoimpensabile considerato che nelpanorama del settore le aziende ancoravive nate negli anni Sessanta si contanoal massimo sulle dita di due mani».

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L’evoluzione di un mito

Iac Rodrigo

Dalla camicia al total look, l’azienda di Chieti Scalo

nata negli anni Sessanta è arrivata ad essere

una delle aziende più prestigiose nel settore

della moda maschile.

di Andrea Carella foto Antonella Da Fermo

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Racconta Bocchetti: «L´iniziativa nascedal più grande gruppo europeo deltessile-abbigliamento dell’epoca, latedesca “Shulte & Dieckhoff” cheproduceva oltre 15 milioni di camicie e20 tonnellate di tessuto di cotonel’anno. L’insediamento a Chieti èispirato da una precisa strategia:delocalizzare una produzione ad altaincidenza di mano d’opera e quindi abasso valore aggiunto». All’inizio è soloidillio: «In pochi anni l’azienda assumeun ruolo fondamentale nell’economiadella provincia di Chieti, il numero degli

addetti supera le 2.200 unità, fornendofino ai primi anni Settanta circa la metàdell´intero reddito industrialeprovinciale. I tedeschi mettono in piediuna perfetta fabbrica di façon, cheriesce a raggiungere livelli diproduzione mostruosi, con tessuti edaccessori forniti esclusivamente dallacasa madre». Tutto bene, fino alla primaavvisaglia di crisi: «Arriva nel ‘71, a

seguito soprattutto della profondatrasformazione del gusto deiconsumatori, che rifiutano un prodottopovero. Nel ‘72 la Gepi, finanziariapubblica destinata ai salvataggiindustriali, ne acquisce la maggioranza:la Iac diventa la prima azienda che vedecome partner la finanziaria pubblica. LaGepi si trova a dover risanareun’azienda monoprodotto, senza unproprio marchio, senza una clientela,senza una rete distributiva. Poi, nel ’74,la casa tedesca esce dalla compagineazionaria».

A salvare la patria – nel senso letterale–ci pensa un lungimirante manageritaliano, Francesco Poletti: «In quattro,cinque anni appena, lui che era statodirettore del settore abbigliamentodella Gepi –illustra Bocchetti– riesce araddrizzare l’azienda, ma anche a porrele basi per un suo rilancio in grandestile. Come? Facendo ricorso a dosimassicce e intensive di formazione sulpersonale, aprendo un fronte che sirivelerà decisivo sulla qualità. Poi,operando una graduale riduzione degliorganici per adeguarli alle mutatepossibilità di assorbimento del mercato,inserendo manager capaci e affiatati,creando il marchio Rodrigo, dando vitaa una rete di vendita giovane,aggressiva e determinata, realizzandoinvestimenti significativi in

comunicazione e pubblicità. Con ilrisultato, all’inizio degli anni Ottanta, diavere un’azienda flessibile e reattiva, ingrado di conquistare la leadership delmercato italiano della camiceria, conbilanci in utile, maestranze ecollaboratori capaci e motivati».È l’inizio della nuova svolta, con la Iacpronta a tornare impresa tutta e soloprivata, una metamorfosi che ispiraall’epoca perfino l’attenzione deglistudiosi di economia: «Laprivatizzazione si concludepositivamente nel 1986 con la cessionedell’intero pacchetto azionario allasocietà finanziaria costituita “ad hoc”dallo stesso Poletti, dai manager e daalcuni industriali locali coinvolti nelprogetto. L’azienda si internazionalizzaattraverso la acquisizione della BonserEspañola di Barcellona, specializzatanella produzione e vendita di pantalonie camiceria di alto livello sul mercatospagnolo. Il periodo d’oro proseguefino a metà degli anni Novanta, quandouna nuova crisi bussa alla porta,complice il forte cambiamento che siregistra nei consumi, il gap tra i costi diproduzioni interni e quelli dei paesiesteri a basso costo di mano d’opera.Inoltre, come se non bastasse quantodetto, a complicare la vita del gruppo cisi mette anche la scomparsa prematuradell’uomo che ne aveva segnato lasvolta».Per il nuovo management la stradatorna a farsi in salita, tanto più chel’Abruzzo è fuori da tutta la vastagamma di agevolazioni concesse dallaStato e dall’Unione europea: «Ci haaiutato il senso di responsabilità deisindacati, una “complicità positiva” cheha permesso di trovare soluzioniequilibrate e senza grossi traumi algrave problema occupazionale. L’uscitadalla crisi si può far risalire a metà del2002, attraverso una completadelocalizzazione della produzione,l’inevitabile riduzione degli organici, lamessa a punto di un’offerta di total lookperfettamente in linea con il mercato diriferimento ed una nuova strategiadistributiva che punta decisamentesulla conquista di spazi propri o infranchising, affiancata da una

La sfilata Rodrigo nella

sala dei Frontoni alla

Civitella di Chieti.

a lato, una immagine

della collezione

Rodrigo primavera-

estate 2009

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consistente e ben mirata campagna dicomunicazione».Nel luglio 2003 l’azienda entra a farparte del Gruppo Saitt guidato daGilberto Rossi, leader nella produzionedi camiceria di alto livello con i marchiTruzzi (scelto anche da personalitàcome Clark Gable, Arturo Toscanini,Herbert Von Karajan, e da diversimembri della famiglia reale inglese…) eMastai Ferretti: proprietaria, tra l’altro, diuna importante società produttiva inRomania in grado di realizzare circa 3milioni di camicie annue con tecnologiemolto avanzate. Il resto è storia recente, ovvero quella diun marchio che ha saputo conquistareun posto al sole nel mercato maschile,con la diffusione affidata a dettagliantidal buon pedigree, a una propria reteefficiente e aggressiva, a una capacità dirinnovarsi che si affida ai meccanismiformativi –tema di ritorno– in grado di

coinvolgere qualcosa come il 70% deidipendenti. Il futuro è nella forza dei numeri, comeconferma Bocchetti: «Il business planelaborato due anni fa prevedeinvestimenti su Rodrigo (di cui Iaccontrolla direttamente circa il 40% delladistribuzione) per un totale di 15milioni di euro, finalizzatiessenzialmente alla crescita delladistribuzione diretta ed in franchising,all’apertura di 3 negozi “bandiera” neicentri delle principali città italiane, adinvestimenti significativi in pubblicità ecomunicazione, a una maggiorepenetrazione sui mercati esteri. Conl’obiettivo di convincere una bella fettadi consumatori «che ancora oggi èdisposta a pagare un sovrapprezzo del30-40% per capi di pari qualità, e soloper esibire una griffe che faccia piùstatus symbol, rispetto al nostro». Lasfida è già partita.

Uno dei punti vendita

monomarca Rodrigo.

Una immagine storica

del reparto di

produzione negli anni

Sessanta.

Sfilata Rodrigo a La

Reserve di

Caramanico Terme.

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Come si fa a diventare il miglior rivenditore diattrezzature per le riprese televisive? Chiedetelo aRoberto Battaglia, che è riuscito a trasformare un centro

di assistenza per professionisti della telecamera in un puntovendita considerato oggi il numero uno del centro Italia.Telecamere e accessori, nonché attrezzature per il montaggionon lineare e relativi software di livello broadcast (=produzione),ovvero quello professionalmente più alto. E l’ha chiamatoproprio così, Broadcast Center, allo scopo di stabilire subito iltarget: «L’amatoriale proprio non lo trattiamo, quello èappannaggio dei vari megastore tecnologici. Noi forniamo unservizio a chi lavora nel campo della ripresa video». La Broadcastè riuscita a farsi strada, a guadagnarsi la fiducia dei clienti graziea un serissimo lavoro sull’assistenza (ancora oggi uno dei loropunti di forza) e a emergere fino a diventare il primo punto diriferimento per chiunque lavori nel settore della produzionevideo. Tre dipendenti in tutto, con Roberto davanti e dietro lequinte. «Non vendiamo solo scatole» spiega Roberto. «Oggi conInternet chiunque può ottenere un prodotto comodamente acasa e spesso al prezzo più basso disponibile; noi puntiamo sullacostruzione di un rapporto con il cliente e soprattuttogarantiamo un servizio di assistenza costante, a prezziassolutamente competitivi». Nel negozio di Via Chiarini aPescara campeggiano in bella mostra quattro telecamere, unadelle quali è la nuovissima AG-HVX 201, una macchina della

Panasonic tra le più richieste attualmente. «Trattiamo i principalimarchi professionali: Sony, Jvc, Canon, e naturalmentePanasonic, che è il prodotto di punta. Chi viene da noi sa chequasi certamente trova quello che cerca». Dal cameramantelevisivo al regista cinematografico, la Broadcast ha la soluzioneper tutti. «Lavoriamo in genere con le televisioni, locali enazionali, coprendo un’area piuttosto vasta che va oltre i confiniregionali; studi fotografici, studi grafici e naturalmente data laqualità delle apparecchiature che vendiamo abbiamo fornito leattrezzature anche a qualche regista: il film dei fratelli Di Felice,ad esempio, è stato girato con una nostra telecamera, e laqualità dell’immagine era eccellente». Roberto Battaglia, unpassato da assistente alle dipendenze di un’altra ditta e unalunga esperienza a Milano nel settore, parla con passione delsuo lavoro: «Mi è sempre piaciuto aggiustare gli apparecchielettronici, ma ho sempre avuto anche il pallino della vendita.Alla fine sono stati proprio i clienti a spingermi ad aprire laBroadcast, e oggi mi occupo più di questo che dell’assistenza».Dietro il punto vendita si trova infatti il laboratorio della RBElettronica, la ditta da cui è poi nata la Broadcast: «Con moltisacrifici, che continuo a fare, ma i risultati sono tangibili.Abbiamo una clientela nutrita che si allarga sempre più, equesto vuol dire che stiamo lavorando bene. E tutto quello cheho guadagnato l’ho sempre reinvestito nell’attività». Una lezionesemplice, chiara. Come una nitida immagine digitale.

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Broadcast

Biagio Bocchetti, direttoregenerale della Iac Rodrigo

Te lo dò ioil digitaleDa laboratorio per l’assistenza tecnica

a punto (vendita) di riferimento

per i professionisti della tv:

è Broadcast center,

ovvero la tecnologia dal volto umano

Nella foto: Roberto Battaglia, primo da sinistra

con i suoi collaboratori

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Aziende / Area Legno

Naturalmente sicura

Settantacinque, trentuno, quaranta, seicento. Sono inumeri di un’impresa che resterà nella storia deldopoterremoto: la costruzione da parte della ditta

Area Legno di Città Sant’Angelo della nuova Scuola maternadi Onna, il paese a pochi chilometri dall’Aquila che ha subito imaggiori danni durante il tragico sisma del 6 aprile scorso.Settantacinque erano i giorni concessi alla ditta titolaredell’appalto per la costruzione della nuova struttura; solotrentuno quelli effettivamente impiegati grazie all’impegnocostante di circa quaranta dipendenti, che hanno lavoratosenza sosta dal 13 agosto al 14 settembre. Seicento i metriquadrati di cui consta la scuola, realizzata a tempo di recorddalla ditta angolana, la prima in Abruzzo e la più importantenel settore delle case in legno. «Il progetto –spiega il titolare diArea Legno Giustino Di Donato– è stato realizzato

dall’architetto Fabio Andreatta della Protezione civile di Trentosu un disegno di Giulia Carnevale, la ventiduenne studentessadi Architettura rimasta vittima del terremoto». Un milione emezzo di euro il costo dell’operazione, sostenuto dallaProvincia di Trento, dalla Protezione civile di Trento e dallaraccolta fondi lanciata da “Porta a porta”. L’esperienza e lacapacità del team di Area Legno hanno fatto il resto, nonsenza difficoltà: «In pieno agosto –racconta Giustino– non èfacile reperire i materiali necessari per la costruzione di unastruttura così importante. Si tratta di pareti massicce, di legnopieno, che utilizzano una tecnologia chiamata X-Lam: spesse13 cm, con la coibentazione e il rivestimento diventano di 45cm., le stesse che abbiamo utilizzato in passato per altri lavoridi pari rilievo. Naturalmente, gli accordi prevedevano checonsegnassimo la scuola “chiavi in mano”, quindi ci siamo

La scuola materna

di Onna, immaginata

da Giulia Carnevale,

studentessa vittima

del sisma del 6 aprile,

realizzata a tempo

di record dalla giovane

e dinamica ditta

di Città S. Angelo

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rivolti a fornitori fidelizzati per realizzare le opere accessorie,ovvero gli impianti di riscaldamento, acqua e elettricità: inpratica abbiamo tralasciato solo l’arredamento». Un lavoromonumentale che può essere considerato un piccolomiracolo: «Un miracolo –prosegue Francesca Di Donato,sorella di Giustino e contitolare dell’azienda di famiglia– chesi è avverato anche grazie all’impegno delle nostremaestranze, che hanno rinunciato alle vacanze, ai sabati e alledomeniche per consegnare a Onna la scuola prima dell’iniziodelle lezioni». E che hanno fatto uno sforzo in più perrealizzare un progetto dal design decisamente diverso: Giuliaaveva immaginato la scuola come se fosse un libro, Quellodelle case in legno è un settore in espansione: «La richiesta dimercato è enorme, malgrado la cultura del legno e dellabioarchitettura non sia ancora diffusissima nella nostra

regione. Al nord è diverso, la cultura della casa in legno èmolto diffusa già da diverso tempo. Noi però lavoriamo suprogetto, realizzando in pieno i desideri del cliente, eforniamo un prodotto che a parità di costo con una casa incemento armato garantisce molto più comfort e maggiorisicurezze». Le case in legno, infatti, sono solide e antisismiche,ecologiche e sane; si costruiscono con facilità e siconsegnano rapidamente (bastano di norma meno di tremesi), sono economiche (hanno un alto risparmio energetico)e «non va dimenticato il fattore estetico, non menoimportante degli altri. Quelle che proponiamo noi, insomma,non sono baite di montagna, ma vere e proprie case che sisposano benissimo con il nostro modo di vivere, e forse locambiano in meglio».

M.L.

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Dal lavoro nel settore degli impianti petroliferi allo sviluppo di tecnologie innovative per l’approvvigionamento energetico basato su energie pulite e rinnovabili. La storia di un’azienda che potrebbecambiare il nostro modo di vivere.

Aziende / Heliosistemi

Energia sì, ma rinnovabile. Passare dal combustibile“sporco” alle fonti cosiddette “pulite”, ovvero fontinaturali come l’aria, l’acqua e il calore della terra. È la

filosofia del Gruppo FAGNANI Facoman-Heliosistemi, unagiovane azienda nata nel 2006 da una costola della Facoman,azienda che produce impianti per il trasferimento di fontienergetiche chiavi in mano, nel settore petrolifero. Il Gruppo FAGNANI Facoman-Heliosistemi fa esattamente lostesso, solo che progetta e costruisce impianti perl’approvvigionamento energetico improntati all’utilizzoesclusivamente di energie pulite e rinnovabili. Parole comegeotermia, biomasse, fotovoltaico, sono parte del linguaggioquotidiano di un gruppo di giovani imprenditori capitanati daAlessandro Fagnani, 43 anni, studi di geometra a Pescara e diingegneria a Roma con un’esperienza maturata proprio nellaFacoman, l’azienda di famiglia. «Passare al rinnovabile non èsolo una scelta di mercato, dovuta al crescente interesse delpubblico per le energie alternative. La Facoman ha semprecertificato il suo sistema aziendale, ossia il processo produttivo,secondo l’ISO 9001 per garantire la qualità dei processi.Dopodiché certifica secondo l’ISO 14001, cioè con le norme ditutela ambientale, ossia: faccio il mio lavoro e lo faccio bene ein più lo faccio senza inquinare. Ulteriore certificazione è laOHSAS 18001, la sicurezza: faccio bene, senza inquinare e inassoluta sicurezza, tanto che otteniamo ogni anno riduzioni sulpremio Inail. Infine certifichiamo Facoman con l’SA 8000, la

certificazione etica, che significa che i nostri operai non sonosfruttati, gli vengono pagati gli straordinari, non lavorano dinotte, non sono stressati, se hanno problemi trovano semprenell’azienda un dialogo. Insomma, occuparci di energiealternative è una scelta in continuità con quanto fatto finora,non è un modo per “pulirci la coscienza” dopo anni di lavoronel settore petrolifero». Ed ecco quindi il Gruppo FAGNANIFacoman-Heliosistemi, che si propone di promuovere evalorizzare un nuovo concetto di benessere collettivo, nelsegno del risparmio energetico. Il che equivale a calibrare eprogettare il proprio intervento studiando la soluzione miglioreper ogni situazione. «Si fa presto –prosegue Fagnani– a dire“voglio i pannelli solari per avere l’acqua calda”, è un rapportovenditore-cliente che non ci interessa. Quello che offriamo noiè diverso: studiamo la situazione e proponiamo al cliente lasoluzione migliore dal punto di vista del rapporto tra costodell’impianto e vantaggi sotto l’aspetto economico, cioè delrisparmio sulla bolletta». È così che la giovane ditta ha realizzatoinnovative soluzioni, ad esempio, per ottenere energia dai rifiutiindustriali: «Una fabbrica di mobili aveva deciso di adottaresistemi alternativi di energia. Naturalmente chi lavora col legnoproduce come “rifiuto industriale” segatura. Abbiamo pensatodi trasformare il rifiuto, che andrebbe smaltito, in combustibile,realizzando una macchina a cogenerazione che producetramite la segatura acqua calda, acqua fredda ed energiaelettrica. In questo modo il cliente ha azzerato le spese di

Il filo verde dell’energia

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smaltimento dei rifiuti industriali e ha ottenuto energia. Unaltro cliente, un privato, ha costruito la sua abitazione su unterreno dove prima sorgeva un cementificio. Vista la presenzadi grandi pozzi e di grandi quantità di acqua, abbiamo pensatodi utilizzare quell’acqua per installare una pompa geotermicaa ciclo aperto in grado di produrre acqua calda in inverno eacqua fredda in estate per alimentare la casa. È questa la nostrafilosofia». Grazie alla quale il Gruppo FAGNANI Facoman-Heliosistemi ha dialogato non solo con i privati, ma anche conenti e istituzioni: scuole, edifici comunali, chiese e palazzettisportivi si sono affiancati alle case private, alle ville e alleindustrie, allargando i confini operativi anche oltre quelliregionali, ottenendo commissioni in tutta l’Italia (“per l’esteroci stiamo organizzando”, aggiunge Fagnani), e riuscendo anche,lavorando in qualità, a sostenere egregiamente il confronto conle altre aziende sorte di recente sull’onda del businessecologico. Dal nero del petrolio al verde dell’energia naturale,col valore aggiunto di una garanzia Kasko quinquennale per leapparecchiature, di un’assicurazione di 10 anni perresponsabilità civile ed un’assistenza e una manutenzioneprogrammata per l’impianto. Il filo rosso dell’energia passaanche per la domotica, quel sistema che praticamente rendela casa completamente informatizzata così da gestire i consumienergetici secondo necessità: «Quando ad esempio lasciamol’appartamento, il sistema domotico permette con la solapressione di un tasto di spegnere tutte le luci, chiudere le

serrande e abbassare la temperatura di tutti i locali della casa.Al ritorno, lo stesso sistema ripristina i valori di temperatura,riapre le serrande e riattiva i dispositivi necessari all’utilizzo, peresempio, degli elettrodomestici». Competenze che sembranoincredibili per una piccola azienda (meno di venti dipendenti,di cui circa dieci costituiscono lo staff progettuale) ma che inrealtà affondano le radici in uno stesso bacino: quellodell’energia. Parola che nel Gruppo FAGNANI Facoman-Heliosistemi conoscono bene: «Tutte le energie alternative–conclude Fagnani– possono fornire oggi un contributorilevante allo sviluppo di un sistema maggiormente sostenibile,incrementare il livello di consapevolezza e coinvolgimento daparte dei cittadini, contribuire alla tutela del territorio e alrispetto dell’ambiente. Obiettivi da inseguire anche comeopportunità di crescita economica. Questo non significarinunciare ai comfort che la tecnologia ci offre, ma di adottarepolitiche e strategie che tendano allo sviluppo della società inun’ottica di sostenibilità, compatibile con la disponibilità dellerisorse e con la vivibilità dell’ambiente, nel presente e per ilfuturo».Alcune importanti realizzazioni ci contraddistinguono, l’HotelRigopiano con il centro benessere, impianti fotovoltaici sui tettidelle scuole di Pescara, presso la riserva di Popoli alle sorgentidel fiume Pescara, il nuovo asilo di Onna per citare solo alcunidegli esempi più significativi.

M.L.

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Nella pagina a fianco, la squadra

di Heliosistemi che ha lavorato

all’asilo di Onna.

In queste foto alcune fasi

della lavorazione e l’impianto

di riscaldamento a terra.

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Nonno e padre alpinisti,

madre leader ambientalista:

profilo di un giovane imprenditore

che scommette su un rapporto

diverso tra mercato dell’auto

e consumatori

Francesco Barbuscia

Verdemanager

Studia da manager, pensa dasportivo e ambienstalista. E’Francesco Barbuscia, 27 anni,

laureato in Scienze manageriali aPescara, rampollo di una dinasty diimprenditori che ha legato la propriastoria ad uno dei marchi più celebratidell’automobilismo mondiale, laMercedes, e che tuttavia coltiva lapassione per la natura e l’ambientecome un elemento tutt’altro chedecorativo dell’album di famiglia. Aradicare certe sue convinzioni, d’altraparte, ha pure contribuito il recentepassato da sportivo super impegnato,con esperienze maturate in un annotrascorso in Australia tra aule scolastichee vasca della pallanuoto. Una lezionemessa bene a frutto: «La competizione èimportante, specie in un momento dicrisi come questo l´esperienza sportivainsegna ad affrontare le cose con lospirito giusto e a lavorare in squadra. Dasoli si può far molto, ma in tanti si fa

meglio. Forse in passato nelle aziende sipreferiva lo schema piramidale, con ilcapo e i sottoposti, oggi si tende alavorare tutti sullo stesso livello, senzaqualcuno che comandi a bacchetta».Così, emergono inevitabilmente altrivalori: «Come dare il buon esempi,perché un capo assenteista o che nonlavora può ottenere ben poco dai suoicompagni di lavoro. Lavorare a strettocontatto con i propri collaboratori,stimolarne la creatività senzasoverchiarli, condividere le idee: questesono le regole fondamentali». Nel lavoro dell´azienda di famiglia, unadelle concessionarie automobilistichepiù "anziane" e blasonate del territoriopescarese (venne fondata nel 1920 dalbisnonno di Francesco), fare gruppo è lastrategia che porta a vincere: «Il nostroscopo è la soddisfazione dei bisogni delcliente, che non è uno che entra qui con isoldi in mano. Non è tanto venderequesta o quella vettura, ma far sentire il

cliente a proprio agio, soddisfare i suoibisogni che in questo settore sonospesso emozionali». In realtà, molta acqua è passata daquegli anni Venti, da quando cioè undinamico e autorevole GrazianoBarbuscia posava per una foto di gruppoche ora campeggia sulla parete dietro lascrivania di Francesco, espressione dellaquarta generazione al comando dellaconcessionaria dopo i fratelli Luigi eIgnazio e suo padre Piero. Dopo dueanni con mansioni da venditore, alreparto commerciale dei carrellielevatori («Mi è servito per imparare avendere, a conoscere il mondo che ruotaintorno all´azienda e ad allacciarerapporti con i clienti»), oggi Francescosiede dientro una scrivania nella sedecentrale in via Tiburtina, dove si occupaprincipalmente del marketing e dove stacominciando ad “ambientarsi” nelmondo delle quattro ruote: «Vendere unmuletto è più difficile che vendere una

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Da Ortona a Roma,

e da lì in Kosovo, Iraq, Libano.

Vita da peacekeeper di una donna

con le idee chiare e coraggio da

vendere

macchina: chi viene a comprare un’autoha già l´intenzione di comprarla, ilmuletto è una necessità per un´azienda;quindi deve avere certe caratteristiche,non può essere semplicemente bello, madeve essere sicuro, efficace. E data lacomplessità di queste macchine bisognaessere quasi dei consulenti per l´azienda,bisogna sapersi orientare per capirequali facciano al loro caso. Questostabilisce tra venditore e cliente unrapporto molto forte, e questo aspettomi piaceva molto». Un lavoro cui si dedica solo due anni,durante i quali ha avuto modo diconoscere il tessuto imprenditorialelocale: «L´Abruzzo imprenditoriale cheho conosciuto io è un ambiente florido,produttivo. Avevo ottimi rapporti con glialtri rappresentanti delle "nuovegenerazioni al comando", si vedeva cheera gente che si impegnava nell´aziendadi famiglia, che aveva voglia di fare, dicrescere» dice. Il rapporto con la politica,

così, non può che essere improntato alpiù sano pragmatismo: «Ho vissutomolto tempo all´estero, e questo perforza di cose ha molto cambiato il miomodo di ragionare. Spesso da noi si cisofferma su banalità, sul battibecco. Unatteggiamento radicato, di cui neancheci stupiamo più». Meglio, allora, parlare diinteressi, come l’ambiente o tutto ciò cheriguarda la natura. «Ce l´ho nel dna, miamadre Paola è presidentessa diun´associazione ambientalista(Marevivo, ndr), nonno Luigi era ungrande alpinista, fondatore del Soccorsoalpino: scalò l´ultimo settemiladell´Himalaya, che oggi si chiamaAbruzzo Peak». Contraddizioni con il mercato diriferimento dell’azienda di famiglia,l’auto, non sempre in linea con la difesadella natura? «Esiste, ma mi fa bensperare la rinnovata e accresciutaattenzione delle case madri verso unatteggiamento ecologista, con la

riduzione dei consumi. Lo sviluppotecnologico, per esempio con i motorielettrici, o ibridi, sta portando a unmaggior rispetto della natura, cosa cheanni fa sarebbe stata molto più difficileperché antieconomico. E quindi anche lacontrapposizione tra la mia indole e ilmio lavoro è meno netta». Infine, il rapporto con i genitori: «Liaffianco, mi occupo di ciò che negli anniè stato trascurato: l´immagine, il nomedella ditta in Abruzzo. Cerco di dare un taglio più giovane, equesto giova anche alla casa madre, dalmomento che la Mercedes ha allargato ilsuo target a tutte le fasce sociali, non èpiù una casa d’élite. Non riesco arinunciare al rapporto umano, nel lavoro:non vendiamo solo dei pezzi di ferro,vendiamo noi stessi. Mi piacerebbearrivare al punto in cui un cliente venissequi anche solo per salutare o perprendere un caffè. Per il piacere di stareinsieme, insomma». A.C.

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GruppoVilla Pini D’Abruzzo

Via dei frentani, 228 - 66100 - Chieti (CH) NUMERO VERDE 800445566 Centralino e Fax: 0871-3430 / 3630 - 0871-331515CUP (Centro Unico di Prenotazione): 0871-3430 www.villapini.it - [email protected]

I.P. Aut.Reg. n° DG9/17 del 13/06/2007 Aut.Reg. n° DG9/18 del 13/06/2007 Aut.Reg. n° DG9/16 del 13/06/2007

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CASA DI CURA VILLA PINID’ABRUZZOChieti Via dei Frentani. 228Direttore Sanitario Prof. Rocco Salini(specialista in Igiene e Direzione ospedaliera, Pediatria e Puericultura,Apparato digerente, Malattie del san-gue e ricambio, Malattie infettive,Igiene e Sanità pubblica)

MEDICINA GENERALENEUROLOGIACHIRURGIA GENERALEMEDICINA RIABILITATIVATERAPIA INTENSIVA

CASA DI CURA SANATRIXL’Aquila, Via XXIV Maggio, 7Direttore Sanitario dott. Americo Dionisi (specialista in Cardiologia, Malattie cardiovascolari e reumatiche,Gastroenterologia)

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CASA DI CURA SANTA MARIAAvezzano (Aq) Via Trieste, 28Direttore Sanitario dott. Corrado Paoloni(specialista in Gastroenterologia)

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CENTRO DI RIABILITAZIONEVILLA PINIChieti Via dei Frentani. 228Direttore Medico dott.ssaRosella Lardani (specialista in Neurologia)

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STRUTTURE INTERMEDIE DIRIABILITAZIONE PSICHIATRICARegione AbruzzoDirettore Medico dott. Giovanni Pardi(specialista in Psichiatriae Criminologia Clinica)

PICCOLO RIFUGIO LA CICALAAtessa (Ch) Via Cavalieri di Vittorio Veneto,14Direttore Medico dott. Alberto Cerasoli (specialista in Neurologia e Psichiatria)

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Regina Elena a Pescara

I piatti della tradizione marinara

rivisitati due giovani chef.

Serviti in un locale sobrio e raffinato

nel cuore della città

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Noblesseoblige

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Nessuna stella Michelin, nessun cappello dell’Espresso, niente posate del Gambero, niente di niente, perora. Del resto sono solo tre anni che il ristorante Regina Elena è in attività. Ma se ancora non è fra iristoranti consigliati dalle migliori guide in circolazione, come hanno fatto a scovarlo e poi segnalarlo

entusiasti agli amici personaggi come Giorgio Napolitano, Gina Lollobrigida, Giovanni Rana, solo per citarnealcuni? Perchè è il ristorante nel cuore della città a due passi dal mare dove si mangia il miglior pesce, in unambiente elegante, sobrio e accogliente. Ad inventarlo sono stati due imprenditori della ristorazione con unaesperienza trentennale ricca di successi: Adamo Di Natale e Stefano Mezzazappa. I loro nomi forse non sonoconosciuti dai più: schivi e riservati, fanno di tutto per non mettersi in mostra. Ma non c’è nessuno, o quasi, che

non abbia passato piacevoli giornate per unmatrimonio o una ricorrenza al Parco dei principi diSan Silvestro con vista su Pescara, nella tenuta Quercegrosse sulle colline di Francavilla affacciate sul mare, alSayonara sulla spiaggia di Tortoreto, nel Casale Marinonelle verdi campagne di Collecorvino o da ThomasCafé, storico ritrovo al centro di Pescara. «Il nostrosodalizio –ricorda Adamo Di Natale– è cominciatooltre trent’anni fa con il ristorante Panorama di PassoLanciano. Poi aprimmo il Lenny’s, che ha scritto paginedi storia della notte pescarese degli anni 70-80, quindivenne il Parco dei principi, il locale che ci ha datomaggiori soddisfazioni e dove siamo cresciutiprofessionalmente».Ma dalla ristorazione dei grandi numeri del “Principe”siete arrivati alla selezione del “Regina”. «Ci siamo sen-titi –dice Stefano Mezzazappa– come dei vignaioli chedopo aver prodotto ottimi vini di largo consumovogliono misurarsi con un gran riserva per soddisfareil gusto dei più raffinati».

E al ristorante Regina Elena (in viale Regina Elena 38 a Pescara) si sono ritrovate tre giovani promesse formatealla scuola gastronomica abruzzese, che dopo aver fatto esperienza e affinato la professionalità in blasonatilocali italiani e stranieri sono tornati nella loro terra. Alessandro D’Alberto, lo chef, è di Caprara e ha studiato aVilla Santa Maria come anche Fabiano Maranca, il direttore di sala e sommelier del Regina Elena, che vanta nelsuo curriculum esperienze all’Hotel Connaught di Londra, al Beau Rivage di Losanna, al Tristan di Maiorca eall’Enoteca Pinchiorri di Firenze. L’altro chef è Fabrizio Borraccino, passato anche lui dal Connaught per poientrare nella cucina del Pierre Gagnaire sempre a Londra e al Four Seasons di Ginevra. Ma tutti e tre hanno

avuto un’esperienza comune, per circa tre anni, al ristorante il Pellicano di PortoErcole, «un luogo prestigioso –spiega D’Alberto– che porta il marchio

Relais & Chateaux, detentore di una stella Michelin, dove abbia-mo tutti imparato molte cose. La mia cucina, infatti, è stata

molto influenzata dalla “scuola” toscana, e alcune tecni-che le propongo anche qui in Abruzzo: lavorare a

basse temperature, utilizzare pochissimi additivi,cercare di mantenere inalterato il gusto del pro-

dotto: insomma, una cucina semplice e delica-ta, nel rispetto dell’alimento». E della natura,ovvero delle stagioni: «Il nostro ristorante–interviene Fabrizio Borraccino– proponequattro menu, come le stagioni, che si suc-cedono durante l’anno: la base è il pesce,ma unito a piatti della tradizione contadina

in un connubio fantasioso e innovativo».Nascono così piatti come la zuppa di lentic-

chie di Santo Stefano con crespelle farcite di

La squadra del Regina Elena:

Gli chef Alessandro D’Alberto

(a sinistra) e Fabrizio

Borraccino con il direttore di

sala Fabiano Maranca.

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pescatrice e calamaretti fritti; la zuppa di castagne allo Chartreuse con capesante e pioppini (piccoli prataioli);sagnette e ceci con sogliole e panocchie. «La nostra specialità –prosegue D’Alberto– sono i crostacei, e siamomolto bravi con i crudi. Ci serviamo dai pescatori, non dagli allevamenti. Io consiglio di provare la nostra zuppadi crostacei con tranci di scorfano e gallinella, una vera delizia». Trattandosi di una cucina che «non prevede laprelavorazione degli alimenti –dice Fabiano Maranca– bensì il loro trattamento “espresso” al momento dell’or-dinazione, per il cliente questo si traduce magari in qualche minuto di attesa in più, ma il risultato poi è estre-mamente soddisfacente. Facciamo attenzione a servire piatti che rispettino l’alimento ma anche la salute deinostri clienti: per esempio utilizziamo l’olio in maniera molto equilibrata, cercando di abbinare gli oli più decisisolo ai crudi, mentre prediligiamo quelli più delicati su tutti gli altri piatti». E siccome anche l’occhio vuole lasua parte, un’attenzione particolare viene riservata alla preparazione del piatto: «Il nostro cliente cerca un piat-to tradizionale ma presentato con eleganza e fantasia. Un’aspetto accattivante rende ancor più gustoso unpiatto già buono». Una squadra giovane, motivata e competitiva, dunque, quella del Regina Elena, di cui Alessandro D’Albertoè il portavoce: «Vogliamo creare qualcosa di diverso per la nostra regione, vogliamo farlo per la nostra cittàe per i prodotti abruzzesi, straordinari, che fuori non riscuotono ancora i successi chemeritano. Noi desideriamo farli conoscere a tutti, e la nostra cucina può essere unottimo veicolo, visto che l’enogastronomia è una fetta importante dell’offerta turi-stica regionale». E magari non solo tramite il pesce: «Nel prossimo futuro speria-mo di allargare la gamma delle nostre proposte anche ai piatti di carne –prose-gue D’Alberto– del resto secondo me il piatto che più rappresenta l’Abruzzo èl’agnello. Ma anche la carne verrà trattata con semplicità, come il pesce. Quanto a noi, è proprio con la delicatezza e la semplicità che con-traddistinguono la nostra cucina che puntiamoa conquistare una menzione sullegrandi guide. Ma soprattutto ciinteressano quelle deinostri clienti». C.C.

La nostra cifra

è la delicatezza;

cuciniamo

nel pieno

rispetto

degli alimenti

originali

Alcune proposte

degli chef del Regina Elena.

Nelle pagine precedenti:

pescatrice con verdurine

autunnali e salsa al basilico.

Nella pagina a fianco: risotto

all’oro di Navelli con capaccio

di gambero rosso;

qui a lato: carpaccio di scampi

con bouquet di misticanza.

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Doveva restare qualche giorno, c’è rimasto quindici anni. La storia di un fotografo diventato chef e oggi nome di spicco della cucina italiana nella capitale olandese

“Il ristorante dove gli altri chef vanno a cena”. Così è indicatosulla guida Lonely Planet il Segugio, piccolo (12 tavoli per 36

posti) tempio della cucina italiana ad Amsterdam, presente dal2004 anche sulla prestigiosa guida Michelin, nato nel 2001 ediventato in poco tempo il miglior ristorante italiano della città.Merito della lungimiranza e della professionalità del suo titolare,Adriano Paolini da Pescara, e dello chef sardo Fabio Ardu, capace distupire senza effetti speciali. «Il segreto del nostro successo stanell’attenzione al cliente, che è totale, a partire dagli ingredienti,tutti di prima scelta». Il segugio si trova in una zona piuttosto chic,lontana dalle rotte del turismo di massa, vicino al Teatro e allaBanca d’Olanda. «I miei clienti sono quasi sempre olandesi,manager, professionisti, imprenditori e membri di grandi aziende. Aquesti tavoli si sono seduti anche Rutger Hauer, Drew Barrymore,Lionel Ritchie, oltre a politici e stelle dello spettacolo olandese».Piccolo ma confortevole, privo di quegli orpelli estetici che “fannotanto italiano” e attento invece ai contenuti, ossia al cibo, il Segugiopropone «poche ma semplici cose» prosegue Adriano. «Abbiamocinque tipi di pane, quattro antipasti, quattro piatti di pasta, tresecondi di carne, due pesci del giorno, dolci e formaggi». Specialitàdella casa: i risotti. «Ci hanno resi famosi. Uso un riso biologico checompro in Italia, facciamo ogni mattina il brodo in casa, comeanche la pasta e i dolci. Una creazione di Fabio sono i carciofivioletti (che facciamo venire dall’Italia) conditi con una salsa di fichid’india; ma cucina anche il pesce con una salsa di nero di seppia esambuca, o l’anatra in salsa di carota e arancia». Raffinatissimepartiture gastronomiche eseguite magistralmente da Fabio e dagli

altri “musicisti”, due cuochi e tre camerieri e un lavapiatti, per untotale di sette orchestrali al giorno diretti con mano sicura dalmaestro Paolini. Quel che colpisce è la carta dei vini: «Hocominciato con 39 vini, adesso ne ho 150 che compro da 18fornitori diversi. Sono diventato un esperto grazie allo studio, allaconoscenza dei produttori –persone che amano davvero il lorolavoro– e alla passione trasmessami da uno dei miei più cari amici,Roberto Visaggio (proprietario dell’omonima enoteca pescarese,ndr.)». Tra i nomi abruzzesi quelli di Agriverde, Masciarelli, Caldora.Ma come è arrivato questo spicchio d’Italia nel cuore dell’Olanda?«Facevo il fotografo –racconta Adriano– e avevo trascorso un annoa San Diego in California per studiare fotografia. Durante il viaggiodi ritorno mi fermai qualche giorno qui a trovare un amico: il terzogiorno conobbi una ragazza di cui mi innamorai… dovevo restarequattro notti, sono rimasto quindici anni», spiega sorridendo. Da lìuna serie di vicende lo introdussero nella cucina di un ristoranteitaliano, di cui divenne chef nel giro di tre anni. «Era il ‘98, avevo 27anni. Un anno dopo me ne andai a fare lo chef in un ristoranteitaliano a Narden, a 30 km da Amsterdam, il cui proprietario è unfamoso designer olandese. Dopo un altro anno di lavoro il mio exchef mi propose di aprire un ristorante insieme, e nel 2001prendemmo la licenza per questo locale. Era nato Il segugio». Storiaaffascinante, quella di Adriano, che oggi –rilevata nel 2005 la quotadel socio– è il proprietario unico di questo luogo di delizie inUtrechtsestraat 96. Una storia italiana di cui, di questi tempi, si puòessere orgogliosi. Fabrizio Gentile

È stato Luca Mastromattei, lo chef figlio del celebre Eriberto, a proporre a Bruno Filippini, pianellese,

titolare di ben cinque ristoranti che portano il suo nome in quel di Marbella (Spagna), una cena di beneficenza

per raccogliere fondi destinati ai terremotati abruzzesi. E Bruno non solo ha accettato, ma ha invitato ben

250 dei suoi migliori clienti i quali hanno risposto in massa garantendo il successo della serata, nel ristorante

“Da Bruno sul mare” il 1 maggio scorso. A dirigere i lavori in cucina proprio Luca insieme ad altri due cuochi

(Francesco Cinapri e Piera LaNotte). Come era prevedibile, sulla tavola sono stati serviti solo prodotti e piatti

direttamente provenienti dalla regione verde d’Europa: salumi e formaggi del Parco Nazionale, chitarrina con

pallottine alla Teramana, risotto allo zafferano di Navelli, agnello “cace e ove”, oltre a verdure e dolci tutti

abruzzesi Doc, come i vini d’accompagnamento (Trebbiano e Montepulciano d’Abruzzo, of course). Quando

“solidarietà” non è una semplice parola…

Una cena per l’Abruzzo

Ambasciatori del gusto / Adriano Paolini

AmsterdamRistorante Il segugio

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72

Nasce Tullum, la prima Doc territoriale abruzzese: un nuovo successo per l’imprenditoria vitivinicola di qualità

Vini / Tollo

Un paese tutto DOC

Èla Doc più piccola d’Italia, ma ha un grande ruolosociale. E soprattutto, è la certificazione di un ottimovino. È Tullum, ultima nata delle Doc abruzzesi, che si

presenta sul mercato con tre etichette: Tullum Bianco, TullumPasserina e Tullum Pecorino (e nel 2010 faranno la loro entratain scena anche i due rossi, il Tullum Rosso e il Tullum RossoRiserva, entrambi a base Montepulciano). E così alle tre Doc ealla sola Docg regionali si aggiunge questa piccola (300 ettaripotenziali) realtà, una Doc territoriale che caratterizza una zonadove la cultura del vino è una tradizione che ha salvato moltipaesi dallo spopolamento, e ancor oggi costituisce la risorsaprincipale dell’economia locale. Presentata lo scorso giugnonella magnifica cornice del rinnovato complesso ex Aurum diPescara, la nuova espressione della viticoltura regionale è statatenuta a battesimo da alcuni abruzzesi di origine controllata egarantita anche loro quali la giornalista e conduttrice tv AldaD’Eusanio, tollese, Giulio Borrelli da Atessa, già direttore del Tg1e oggi capo della redazione Rai a New York, e Adua Villa daAvezzano, sommelier e volto noto del popolare programma RaiLa prova del cuoco. Il compito di illustrare le caratteristiche e iprimi passi della Doc è stato affidato invece all’enologoRiccardo Brighigna e ad Andrea Di Fabio, direttore di FeudoAntico, la società che si occuperà della commercializzazione deivini Tullum sul territorio nazionale. «L’idea di intraprendere lastrada del riconoscimento a denominazione di originecontrollata nasce alcuni anni fa» afferma Andrea Di Fabio « e lemotivazioni sono anzitutto la storicità della produzione di vinoper il paese di Tollo ma anche l’unicità territoriale, che conferisceai vini un forte carattere. Il binomio clima e terreno fa sì che il

territorio si presenti diverso nelle singole frazioni, motivo percui la doc Tullum identifica le tipologie in base alla lorocollocazione sul mappale. L’iter è stato complesso e difficile maoggi siamo orgogliosi di poter presentare i primi vini: TullumBianco, Tullum Passerina, Tullum Pecorino». L’altro grandemerito della Doc è stato quello di sommare le esperienze e lecapacità delle due forze che stanno dietro al progetto, ossia laCantina Tollo e la Cantina dei Coltivatori diretti di Tollo, le duemaggiori realtà cooperative vitivinicole della zona. Per il primoanno la produzione sarà di 66.000 bottiglie. Oltre ad avere unaprimaria importanza per la propria città, la Doc Tullum daràl’opportunità a tutto l’Abruzzo di qualificare la propriaimmagine. Tullum è infatti una Doc territoriale, creata pervalorizzare le peculiarità di questo comune. L’Abruzzo saesprimere una qualità straordinaria che merita di esserecomunicata al consumatore. Una comunicazione che, secondo ipromotori della Doc, deve andare oltre il nome del vitigno.Tullum si rivolge infatti al consumatore moderno, attento allaqualità, alla sostenibilità, alla salubrità e all’eticità del vino.«Abbiamo studiato questa doc perché siano vini da ricordare»afferma Andrea Di Fabio. «Siamo partiti dallo studio dei suoli,del microclima, dei portainnesti, definendo poi i singoli foglimappali, dove concentrare la produzione dei specifici vitigni. Lagrande soddisfazione è che i vini Tullum sono riconoscibili». Ivini Tullum saranno prodotti esclusivamente con uve dellacittadina di Tollo; anche la vinificazione dovrà essere effettuatain zona. Regole rigide, per fare capire al consumatore lavocazione di un territorio.

Mimmo Lusito

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Tullum DOC Bianco

Il Tullum Bianco è un vino di particolare

complessità olfattiva, che si distingue

per il suo inconfondibile carattere.

Tullum DOC Passerina

La Tullum Passerina presenta un’ottima

freschezza, una sottile mineralità

e un’intensa nota fruttata.

Tullum DOC Pecorino

Il Tullum Pecorino ha grande carattere,

che si distingue per la struttura gustativa,

elegante, con delicate note speziate e buona

longevità.

Nella foto grande, panorama dei vigneti tollesi.

Sopra, una bottiglia di Tullum Bianco.

A fianco, un’immagine della conferenza stampa

di presentazione: da sinistra Riccardo Brighigna,

enologo; i tre “ padrini” della nuova nata Adua Villa,

Giulio Borrelli e Alda D’Eusanio; Andrea Di Fabio,

direttore di Feudo Antico, l’azienda

che commercializza i vini Tullum.

Quattro saranno le etichette di vini bianchi: il Tullum

Bianco,Tullum Passerina, Tullum Pecorino e il Tullum

Superiore.

Due linee per i rossi in produzione dal 2010: Tullum rosso

e Tullum rosso riserva.

TULLUM DOC

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Dalle colline casauriensi l’eccellente produzione di un’azienda che si tramanda di padre in figlio il gusto di fare vino

Tocco di qualitàGuardiani Farchione Vini

N ascono sulle colline più belle della Val Pescara i vinidell’azienda Guardiani Farchione: nel territorio di Toccoda Casauria, tra l’Abbazia di San Clemente e le pendici

della Maiella, in una delle zone più vocate d’Abruzzo allacoltivazione della vite e dell’ulivo. Ed è nel 1976 che DomenicoGuardiani e la moglie Maria Farchione, entrambi proprietariterrieri, decidono di imbottigliare la prima etichetta diMontepulciano d’Abruzzo “Tenuta del Ceppete”. Conduconol’azienda con entusiasmo, passione per il proprio lavoro erispetto per i prodotti della propria terra e riescono a trasferirela stessa tenace volontà al figlio Paolo, enologo, che affiancatodalla moglie Stefania, gestisce oggi con impegno e dedizionel’azienda di famiglia.La sede è sempre la stessa, nella casa storica della famigliaGuardiani, costruita nei primi anni dell’800 da Giovanni edEleonora De Lutiis, già da allora piccoli produttori di vinosfuso.La meravigliosa e caratteristica cantina, situata a 5 msottoterra e ovattata nelle pareti di tufo, con la sua temperaturanaturale e costante tutto l’anno, è l’ambiente ideale per laconservazione e l’invecchiamento dei vini; inoltre continua adessere meta di turisti e clienti che vengono a degustare iprodotti. L’azienda Guardiani Farchione produce una limitataquantità di vino e di olio, così da poter prestare maggioreattenzione alla qualità del prodotto. Ciò non ha impedito dicreare una buona e ramificata rete vendita rivolta soprattutto alNord Italia e ai Paesi del Nord Europa, attenti estimatori del

nostro patrimonio enogastronomico.La gamma dei vini Tenuta del Ceppete è composta daMontepulciano d’Abruzzo (di cui possiamo apprezzare la lineabase e quella “barricata”), Cerasuolo e Trebbiano.Oltre ai vini tradizionali la gamma si è ampliata conl’inserimento di due nuovi vini, il Pecorino e il Novello: dueprodotti di nicchia che si distinguono per la qualità.«La scelta –spiega l’ enologo Paolo– è scaturita dalle continuerichieste di mercato. Sono soddisfatto del risultato raggiunto;infatti con le nuove produzioni ho assistito ad una crescitaqualitativa dell’azienda ottenendo unanimi riconoscimenti eapprezzamenti». Oltre ai vini l’Azienda Guardiani Farchione èconosciuta per la discreta produzione di olio extravergined’oliva. Gli uliveti, posti sulle colline dell’Alta Val Pescara, nellazona denominata Le Cese, hanno un’estensione di 20 ettaridove sono messe a dimora 3200 piante secolari della varietàtoccolana. Anche per l’olio vengono proposte due etichette:l’extravergine e la linea D.O.P. Aprutino Pescarese.L’Azienda Guardiani Farchione grazie alla capacità e alla vogliadi migliorare dei titolari e sempre nel pieno rispetto dellatradizione, ha raggiunto negli anni degli ottimi standardqualitativi. I prodotti aziendali si possono acquistare, oltre chenella sede centrale, anche nel nuovo punto vendita di Pescara invia Milano, dove oltre al vino e all’olio è presente una vastascelta di prodotti tipici abruzzesi al fine di promuovere evalorizzare il ricco patrimonio gastronomico della regione. M.L.

74

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L’OLIO E IL VINO

Caratterizzato dal caldo colore

rosso rubino e dal profumo

vinoso. Deve avere una

gradazione minima di 12,5%;

per la sua ricchezza in sostanze

polifenoliche ben sopporta

periodi di invecchiamento,

che ne migliorano ed esaltano

le caratteristiche organolettiche.

Va servito alla temperatura di

18°-20°, stappando la bottiglia

due ore prima di servire.

Il sapore fruttato ed aromatico

ed il profumo fragrante

rendono l'olio Tenuta le Cese

eccellente per ogni piatto.

Alcuni studi hanno dimostrato

come all'olio extravergine

d'oliva possa essere

riconosciuta la capacità di

combattere i famosi radicali

liberi responsabili

dell'invecchiamento cellulare

e di aumentare le difese

immunitarie.

Nella foto in alto: Stefania Farchione, moglie di Paolo.

A fianco la famiglia nella antica cantina di Tocco da Casauria;

in basso immagini della cantina e del secolare uliveto

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Il pastificio più “rustico” d’Abruzzo

celebra i suoi ottant’anni con

un prodotto speciale.

Che piace anche agli USA

Rustichella d’Abruzzo

Primo,il grano

Abruzzese al 100%. Possiamo chiamarla così la propostadel pastificio Rustichella d’Abruzzo: PrimoGrano, unapasta che in quattro formati ci dà la possibilità di

gustare l’alimento principe della nostra dieta così come simangiava una volta. Per l’80esimo anno di attività, infatti, ititolari dell’azienda pianellese, Gianluigi e M.Stefania Peduzzi,con Giancarlo d’Annibale, hanno pensato bene di celebrarel’anniversario e hanno proposto al mercato un prodotto cheunisse nelle sue caratteristiche il passato e il futuro delpastificio: «Ottant’anni fa il processo di lavorazione della pastaera la cosiddetta “filiera corta”: il contadino portava il grano almulino, da lì si ricavava la semola che al pastificio diventavapasta. L’idea è stata di riproporre questo processo, con unocchio anche all’attualissimo problema della tracciabilità totale.Abbiamo pertanto chiesto la collaborazione del CRA per

selezionare le varietà di grano più rustiche e adatte allapastificazione e ne abbiamo individuato i produttori. Il progettoè iniziato nel 2001 e nel 2004 abbiamo potuto effettuare ilprimo raccolto. PrimoGrano evoca un modo genuino, semplice,di fare la pasta, in più “Primo” significa anche alta qualità».Abruzzese, aggiungiamo. I produttori sono tutti locali, cosìcome il mulino. «Abbiamo contrattualizzato i produttoriincentivando la produzione di qualità e garantendo l’acquisto.PrimoGrano è fatta con un grano molto fresco, che sicuramenteha meno forza rispetto a un grano canadese o australiano (chesono utilizzati nella maggior parte dei prodottiin commercio perché a maggior quantità di glutine), ma perquesto ha più sapidità e un profumo straordinario. Richiedecura nella cottura e l’attesa dei veri intenditori di pasta , quindi ,non è adatto a una cucina fast food».

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Quattro formati, quindi, per gustare la pasta di una volta«Dueformati lunghi, uno spaghetto piuttosto grande e uno con lasezione a trifoglio, e due formati corti: una penna rustica, conuna riga disegnata molto particolare e una “sagna” riccia taglia-ta a pezzi ma curva, molto adatta per i legumi. Non troviamoquesti formati né nella nostra produzione “normale” né in quel-le di altri pastifici. Si adattano a condimenti semplici e genuini,come il pomodoro fresco. Per lo spaghetto, ad esempio, un con-dimento aglio e olio è l’ideale». Anche il packaging è diversodalla classica confezione Rustichella: «Identifica il prodottocome fosse una Doc della pasta. Il prossimo passo sarà infatti lacertificazione di filiera, dal seme alla pasta. E insieme a questa cisaranno naturalmente garanzie aggiuntive come quelle legateal territorio, essendo l’area vestina particolarmente attentaalla natura e detentrice della bandiera di prodotti di qualità».Una bandiera che è stata piantata saldamente anche sui tavoli

di numerosi ristoranti d’oltreoceano: «Abbiamo invitato unprimo gruppo di distributori statunitensi che già vendono ilnostro marchio, a vedere la trebbiatura e gli abbiamo spiegatoin sintesi le altre fasi del processo produttivo. Gli abbiamoanche fatto conoscere gli agricoltori e mostrato il mulino dacui otteniamo la semola, e la giornata si è conclusa con ladegustazione del prodotto finito. L’entusiasmo era palpabile.Del resto, PrimoGrano è un prodotto che ha avuto più impattosul mercato estero che su quello italiano, superando in molticasi anche l’ostacolo della scarsa notorietà della nostra regio-ne; anche se adesso dopo le tragiche vicende del 06 aprile,che hanno avuto ampia eco all’estero, hanno contribuito arendere nota a tutti l’Abruzzo. La nostra pasta può considerarsiuna vera bandiera dell’Abruzzo alimentare».

Antonella Da Fermo

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Arrive

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derci!

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RistoranteRegina Elena

Via Regina Elena, 38Pescara

085 4429838

Tenuta Querce Grosse

C.da Santa CeciliaFrancavilla al mare (Ch)

085 4919118

Richard GinoriPiazza della Rinascita,

20-30 Pescara085 385133

Casale MarinoC.da CampotinoCollecorvino (Pe)

085 4980073

Parco dei PrincipiStrada Prov. San Silvestro, 320 Pescara085 4980073

RistoranteSayonaraLungomare Sirena, 22Tortoreto Lido (Te)0861 777290

PasticceriaGrandi EventiValentinoVia della Pineta, 4Pescara 085 6921193

Thomas Cafe’Via Regina Elena, 37Pescara085 385227

Un giorno da sogno

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82MUSICA

Pag

ina

ribaltaRVario

Aventun anni dalla sua scomparsa, avvenuta sulle colline di Montepulciano il 16 giu-

gno del 1988, Andrea Pazienza continua ad essere uno degli autori più amati in tutto

il mondo. Si moltiplicano ogni anno gli omaggi alla sua arte, spesso giustificati dal

ritrovamento di un quaderno inedito con qualche disegno, qualche schizzo, un bozzetto pre-

paratorio per una sua opera. Oggetti che scatenano, com’è giusto, il delirio dei fans e che, il più

delle volte, sono in effetti di grandissimo valore artistico. È il caso del quaderno di inediti che ha

ispirato questa mostra, con cui la città natale di Pazienza, San Benedetto del Tronto, omaggia il

suo figlio più amato esponendo i disegni realizzati da Andrea per illustrare tre componimenti

di Jacques Prévert: Lo spazzino (balletto), Tentativo di descrizione di un banchetto in maschera a

Parigi-Francia, e la piéce teatrale Entrate e uscite. Sono accomunati, Pazienza e Prévert, dalla

stessa vena anticonformista, antiborghese, dalla stessa originalità creativa, che forse nel giova-

nissimo artista della china fu alimentata dal personaggio (più volte ritratto in queste pagine e

in innumerevoli altre della sua produzione) che più ne intuì le potenzialità e che maggiormen-

te si legò a lui negli anni pescaresi: Sandro Visca, cui l’autore di Zanardi dedicò il quaderno ine-

dito sul quale disegnò queste tavole. Il catalogo della mostra “Andrea Pazienza disegna

Prévert”, in cartellone fino a settembre nella Palazzina Azzurra di San

Benedetto del Tronto, contiene tutte le tavole

esposte con testo bilingue ed è imprezio-

sito da un’appassionata introduzione di

Fernanda Pivano, l’americanista recente-

mente scomparsa.

TABÙ94P

agin

a

Jacques Prévert

Andrea Pazienza

Fandango libri, Euro 20,00, pp. 55

LETTERATURA86P

agin

a

91Pag

ina

CINEMA

93Pag

ina

ARTE

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82

Forse sono pochi a sapere che ilbandoneon, strumentofondamentale del tango, è nato in

Germania, dove veniva impiegato nellamusica sacra; venne successivamenteesportato in Argentina dagli emigrantieuropei all’inizio del XX secolo,diventando il re della passionale danzalocale e cambiando così radicalmente ilproprio campo di applicazione.Altrettanto pochi forse sanno che unodei più accreditati bandoneonisti incircolazione è nato ad Atessa ventinoveanni fa e si chiama Mario StefanoPietrodarchi. Un nome altisonante perun ragazzo semplice, che ha brillato sulpalco del Trofeo Mondialedell’Accordeon (il maggiorriconoscimento per un fisarmonicista)tenutosi a Loriént, in Francia, nel 2001,quando classificandosi primo hariportato in Italia un premio chemancava da dieci anni. E sì, perché primadi appassionarsi al bandoneòn il giovanePietrodarchi ha suonato la fisarmonica,diventando uno degli esecutori piùapprezzati e richiesti in campointernazionale. «Ho cominciato a 9 anni,

per gioco, poi mi sono innamorato dellostrumento e ho suonato nelle balere enelle piazze fino ai 14 anni. Partecipandoa uno dei tanti concorsi conobbi ilmaestro Calista, che considero ilprincipale artefice del mio successo: miiniziò alla fisarmonica cromatica,aprendomi un mondo nuovo estimolandomi allo studio». Dodici, trediciore al giorno di studio per anni, concorsie premi vinti in Italia e in mezza Europa epoi, nel 2001, il grande successointernazionale. Dopo aver vinto a Loriéntla sua vita è cambiata: «Ora viaggio incontinuazione, suono da solo o congrandi orchestre sinfoniche, e vengochiamato per far parte della giuria dimoltissimi festival». Ha davvero la valigiasempre pronta: Inghilterra, Francia,Belgio, Croazia, Germania, Stati Uniti,Portogallo, Finlandia, Ungheria, Canada,Russia, Cina e molti altri sono i palchi suiquali si è esibito suonando sia lafisarmonica che il bandoneòn,eseguendo composizioni originali scritteappositamente per questi strumenti. «Ilpatrimonio classico per fisarmonica èabbastanza povero, lo hanno creato

soprattutto i russi, mentre nel restodell’Europa è uno strumento pocovalorizzato. Da qualche tempo hocominciato un progetto dal titolo Madein Italy, in cui unisco la composizione,l’esecuzione e la liuteria targate Italia: hospinto alcuni giovani e talentuosicompositori a scrivere dei pezzi per me, eli suono con strumenti rigorosamenteprodotti in Italia. L’esordio è avvenuto aMinsk, dove ho eseguito unacomposizione di un geniale trentunennepescarese che si chiama AndreaScarpone, insieme alla Bielorussian StateChamber Orchestra nella Filarmonica distato». Oltre ai concerti, Pietrodarchi hasuonato a fianco di nomi di spicco dellamusica italiana (Antonella Ruggiero,Vinicio Capossela) e partecipato allarealizzazione di colonne sonore, comequella per Caos calmo e per il recenteItalians di Giovanni Veronesi con CarloVerdone, scritta da Paolo Buonvino:«Credo che Buonvino sia uno dei migliorinel suo campo oggi nel nostro Paese–dice– e forse presto scriverà unconcerto solo per me».

F.G.

La vita è un tango

MusicaVARIO

Ecco l’abruzzese salito sul gradino più alto

del podio dei fisarmonicisti mondiali.

Ora ha scoperto il bandoneon e progetta

di rilanciare i suoi strumenti col “made in Italy”

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85

MusicaVARIO

Live/GabenSemplicità: un concetto che molti

sottovalutano nel fare musica e

che invece Alessandro Gabini in

arte Gaben, (già noto come arti-

sta visivo: si dedica da sempre al

disegno, al video e alla scultura)

assume come base per i suoi bra-

ni, freschi, spontanei, riuscendo a

non essere mai banale o sconta-

to. Non c’è nulla di ovvio in quel-

lo che fa, anche quando gioca

con la cover di Bollicine (annun-

ciando candidamente e con iro-

nia, alla fine, “questa, per chi non

lo sapesse, è una canzone di

vasco Rossi”) o quando affronta

da solo il pubblico con un inter-

mezzo acustico. Influenzato dalla

street-culture (punk, skate, hip

hop), accompagnato dall’amico

Giulio Corda e dalla perfetta mac-

china ritmica di Michelangelo Del

Conte, Gaben dimostra che anche

con la musica (sua vecchia e mai

sopita passione) ci sa fare. Nelle

sue note c’è lo stesso spirito che

anima la sua arte, irriverente, iro-

nica, assolutamente umana. Ciò

che sorprende con maggior pia-

cere è la sottile ironia dei testi,

anch’essi pervasi dell’innocenza

che attraversa tutta la sua musica.

È lo sguardo di un bambino che

osserva le contraddizioni del

mondo che lo circonda a fargli

scrivere “ehi ehi ehi / aspetta /

non lavori un po’ troppo / eppoi

per chi lavori cosa fai? / Per i soldi

fai di tutto / e pensi che sia giusto

/ ma secondo me / ha uno strano

retrogusto”. Un artista vero,

Gaben, che sta finalmente per

dare alle stampe il suo primo Cd

“Cane” per la gioia di chi lo segue

da tanti anni nelle sue purtroppo

rare apparizioni live. Per ora,

accontentatevi di vederlo dal

vivo: la soddisfazione è garantita.

Cd/Remo FirmaniDodici tracce dodici tutte da ascoltare per farsi

cullare al caldo suono del blues. Remo Firmani è

un giovane chitarrista cresciuto nel fertile terreno

pescarese, ispirato dal suo idolo Mark Knoplfler e

guidato nell’apprendimento dello strumento (una Fender che accarezza con

tocco delizioso) dai suoi fratelli, ha attraversato negli anni molti generi musicali,

restando fedele alla sua passione, il blues. Eric Clapton, Stevie Ray Vaughan,

Robert Johnson, B.B. King, Albert King, Albert Collins, Robert Cray sono i nomi di

riferimento che lo accompagnano in tutta la sua attività musicale, dal primo

gruppo Just friends, al suo personale trio rock blues (Remo and the Blue boat)

che faceva suoi molti brani della “blue

line” di Robben Ford. Nel 1993 l’incon-

tro con il grande maestro jazz pesca-

rese Giuseppe Continenza, che ha

notevolmente influenzato e migliora-

to il suo modo di suonare. Nel 2004 a

seguito di un incontro con un collega

di suo fratello, appassionato di blues e

di hammond, forma la Bluesexpress,

che suona abbastanza di frequente in

molti locali abruzzesi ricevendo criti-

che molto positive. Nel 2005 entra a

far parte della band di musica anni 60

dei Supertonici. In questo suo primo

cd, Everybody’s need, raccoglie molti

dei brani originali scritti durante la

sua attività, più una notevole cover di

Let it be dei Beatles.

Jazz/Rolli’s TonesBasterebbero i nomi di Peter Erskine, Hiram Bullock e Mike Stern (per tacere

degli altri compagni d’avventura Stefano Cantini, Bob Sheppard, Bob France-

schini e Achille Succia) a rendere più che appetibile il nuovo lavoro discografico

del pescarese Maurizio Rolli, uno dei nomi più noti a livello internazionale della

scena jazz. Ma a farne un acquisto imperdibile è senz’altro la copertina, realizza-

ta da Tanino Liberatore e ispirata ad un altro lavoro dello stesso artista della chi-

na, che nel 1983 firmò l’artwork di Man from Utopia di Frank Zappa. Insomma,

una cover di se stesso, per un disco che racchiude nove tracce di cui sette sono

proprio cover: versioni arrangiate per big band di classici del rock come Little

wing di Jimi Hendrix, Changes degli Yes, Diary of a madman di Ozzy Osbourne o

Every breath you take dei Police. «I brani che compongono questo progetto

–spiega Maurizio Rolli– filtrati attraverso una mia nuova consapevolezza basata

sul mio apprendistato musicale, sono quelli che ascoltavo tutte le notti nascon-

dendo il registratore sotto il cuscino mentre i miei dormivano, sono quelli che

hanno contribuito a farmi amare la musica e il mio strumento fin da piccolo e

che spero contribuiranno a fare lo stesso per coloro che verranno a contatto con

questo lavoro». Auguri, è nato il Jazz’n’Roll.

ph. E

man

uela

Bar

bi

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Letteratura/Zaira FuscoVARIO

Achi desidera leggere qualcosa di autentico e valido, anchel’opera di un’esordiente, purché alla profondità e allo scrupolo

della ricerca si associ una consapevolezza stilistica, consigliamosenz’altro il saggio di Zaira Fusco. Un tema altamente sensibile, è ilcaso di dire – e non soltanto perché la celebre confraternita fecedell’invisibilità, dell’imprendibilità, il proprio statuto. Studiosicontemporanei quali Paul Arnold e Frances A. Yeates hannodefinitivamente enucleato il valore di questa enigmatica entitàstorica, sgombrando il campo da numerosi pregiudizi dell’una edell’altra parte – quella di chi arrivava al punto di dichiararseneaffiliato, e quella di chi cercava di liquidarla col più sbrigativodileggio. Stando così le cose tutto sembrerebbe risolto. E invece no.Lo si voglia o meno, la Rosacroce è tuttora una stella buia, un buconero anche quando ci si affida ad aperte e democratichesistemazioni esegetiche. “Essi restarono effettivamente invisibili, dilà dal mito che li prese a soggetto”, è la deduzione tutt'altro chelapalissiana di un autore italiano di cui preferiamo tacere il nome.Ogni segreto crea tensione – si immagini allora qualescatenamento, quale maelstrom dell’esperienza conoscitivaspalanchino la letteratura esoterica e quell’ermetismo da cui ilrosacrocianesimo fu influenzato.

Con raffinata competenza e munita del rarodono della levità Zaira Fusco ha saputoaffrontare un patrimonio culturalesterminato e incandescente, per delineareun fascinoso viaggio, com’è ben detto nellaquarta, dentro un passato che irrorainaspettatamente il nostro stessocontemporaneo. Chi erano ChristianRosenkreutz, Johann Valentin Andeae? Lebellissime pagine iniziali dedicate ai simbolidella rosa e della croce, alle connessioni traOriente e Occidente, alla medievalevibrazione tra natura e Cristo, e dove spiccal’incanto dell’unicorno, davvero fungono da“scrigno dove il mito continua a vivere”,come la Fusco scrive riguardo alla rilettura ditesti classici e arabi nel corso dell’evoluzionefilosofica e scientifica. Dunque la pistaseguita è a tutti gli effetti moderna,oggettiva, saldamente legata ai criteri dellaverifica e del riscontro? Guenon, “metafisico”autore novecentesco, che moderno proprionon lo è, legittima il viaggio dell’autricealmeno tanto quanto i più consolidati erazionali Yeates e Arnold. La peculiarità dellaFusco è in questo delicato compito dibilanciare i rapporti, di alchimizzare, dimuoversi con intelligenza tra fonti spirituali

e mondane – a tutto vantaggio di una piena fruibilità escorrevolezza testuale. Non è poco non incorrere nell'errore criticoin cui sono caduti tanti ostinati nello scambiare gli Invisibili per unbersaglio. Ma perché? La stessa solidarietà non è forse di marcarosacrociana? Non vogliamo togliere al lettore il piacere di scoprireda solo chi fossero il seicentesco scrittore Andreae e il suopersonaggio, o meglio il suo fantasma immortale, Rosenkreutz. Ilche non impedisce la constatazione che il cuore del libro, i capitoliaffidati alla ricomposizione degli accadimenti seguiti allapubblicazione, tra il 1614 e il 1616, dei tre testi anonimi di Kassel eStrasburgo, e all'apparizione dei misteriosi volantini nelle strade diParigi, sette anni dopo –così come le puntuali analisi della Monadegeroglifica e di una figura strategica come l’elettore palatinoFederico V– siano di mirabile fattura. A ciascuna delle sette giornatedelle “Nozze chimiche di Christian Rosenkreutz”, l’anonimoromanzo di Strasburgo, la Fusco assegna una parafrasi preziosa perquanti intendano accostarsi ai prodigi dell’alchimia letteraria,considerando anche che il testo-chiave della Yeates, “L’illuminismodei Rosacroce”, citato più volte dall’autrice pescarese, da anni èirreperibile in traduzione italiana. Tra i vari meriti del libro, a suffragare una possibile plasticitàesoterica, le pagine sull’Hortus palatinus e soprattutto sulla PortaMagica di Roma, che basta solo andare a vedere per convenirequantomeno che la Quarta Monarchia rosacrociana non avrebbepermesso un degrado simile – e tuttavia: “Il nostro figlio morto vive,torna Re dal fuoco e gode delle occulte nozze”, ne traduce la Fuscol’ultima delle iscrizioni iniziatiche. E tra noi ci sono “figli regali”,discendenze di siffatte nozze? Personalmente riteniamo cheproporre a tanti bravi intellettuali nostrani un ripensamento sulLibero Arbitrio equivarrebbe a impedire al cliente di unsupermercato di approfittare delle offerte sui generi alimentari.Non per ciò sono meno convincenti i capitoli finali sulla relazionecon l’arte contemporanea, anzi sono l’esito naturale, il canto delcigno –e del serpentario, chi leggerà capirà– di quella levità ditratto –non leggerezza– propria della vivace penna della Fusco.L'idea di libertà evocata dall'autrice è jaspersiana, ha spessoreteologico: “La lotta tra scienza e fede da sempre in atto si risolve nelsuperamento del dogmatismo religioso contingente enell’affermazione di una libertà dell’uomo connaturata al suoessere nel mondo. L’uomo sceglie la sua direzione e si avvale dellasua possibilità di comunicazione. Proprio a causa della naturaumana è innata la sua vocazione alla ricerca del Dio che gliassomiglia poiché l’ha creato”. L’intero “Sapere esoterico deiRosacroce” è corredato da una splendida iconografia curataanch’essa dalla Fusco. Si possono ammirare arcani & emblemi &simboli di difficile reperibilità –un sapiente contrappuntoall’invisibile– specie in chiusura con le suggestive riproduzioni dirare opere fin de siécle. Auratiche. Il Novecento avrebbe potutoavere tutt’altro destino. Marco Tornar

Il sapere esoterico dei Rosacroce

Om Edizioni, pp. 231, Euro 20

L’enigma dei Rosacroce

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87

Un viaggio attraverso i suoni del Mediterraneo, guidati dalle parole dei piùrappresentativi personaggi della musica jazz, folk, etnica. Un’avventura, quella

intrapresa da Fabio Ciminiera (da sempre appassionato di jazz e coautore dellafanzine Jazz Convention) che lo ha portato per mano alla scoperta di un mondo i cuiconfini sono così labili da superare quelli geografici. In poche parole, Le rotte dellamusica è un libro che delinea un ritratto comune in cui ogni Paese trova una suariconoscibilità, pur nelle differenze che apparentemente lo dividono dagli altri. «Se iljazz –spiega l’autore– e il nuovo valore dell’improvvisazione, portato dal jazz nelventesimo secolo, sono una chiave di lettura importante, gli steccati dei generivengono superati immediatamente, a vantaggio dell’incontro tra diverse intenzionimusicali». Le rotte della musica era stato originariamente pensato come unapresentazione musicale dei Paesi partecipanti ai Giochi del Mediterraneo: «Durante larealizzazione del libro, però, mi sono accorto che stavo andando in un’altra direzione,che ciò che avevo intenzione di fare stava portando a un risultato ben più altodell’obiettivo che mi ero preposto. E mi sono lasciato trasportare da quanto andavoscoprendo, cioé che il terreno da cui partono i suoni della regione in esame è unlinguaggio comune». Akim El Sikameya, musicista algerino, ha dimostrato il valore diquesto concetto mettendo su un progetto musicale (la Med’set Orchestra) che hacoinvolto 6 artisti rappresentativi delle diverse culture musicali mediterranee,facendo cantare a ciscuno brani tradizionali degli altri cinque, allo scopo didimostrare quanto siano sottili i confini tra le culture del Mediterraneo. Il violinistaalgerino è solo uno degli ottanta musicisti che Ciminiera ha inserito nel libro, dei qualibuona parte sono stati intervistati grazie alle moderne tecnologie: «È un libro chedeve molto ale possibilità offerte dal web 2.0: non potendo, per ragioni pratiche,inseguire tutti i musicisti nei loro rispettivi paesi d’origine, li ho intervistati via e-mail, ocon strumenti come Skype e programmi di messaggistica». I primi sette capitoliaffrontano la storia del jazz nei Paesi del Mediterraneo in modo quasi cronologico,partendo dall’opera di Django Reinhardt (il primo ad aver sintetizzato il jazz in unaforma assolutamente personale, sostanzialmente l’inventore del jazz manouche) epassando «per le figure storiche del jazz europeo, come Franco Cerri, Gegé Munari,Daniel Humair e Toots Thielemans, per finire con musicisti attivi nelle musiche dellediverse tradizioni, ma aperti alle suggestioni dell'incontro e della musica diimprovvisazione come il già citato Akim ElSikameya, Abaji e Damir Imamovic. E, ancora,le tante visioni del jazz e della musicapopolare e le loro continue evoluzioni nelcorso degli ultimi cinquant’anni. Senzadimenticare, infine, gli aspetti organizzatividella musica, colti nelle parole di direttoriartistici e operatori culturali dell’area». Editocon la consueta cura dalla casa editriceIanieri di Pescara, il libro è corredato dasplendidi ritratti fotografici di gran parte deimusicisti che appaiono nelle interviste,realizzati da Andrea Buccella. Un motivo inpiù per decidere di acquistarlo. F.G.

Va’ dove ti porta il Jazz

Storia di MaraSimone D’Alessandro

Fabio Ciminiera

Quattro ore bastano per raccontareuna vita. È quel che succede nel

bel romanzo di Simone D’Alessandro,scritto in una forma che è memoria,confidenza e dialogo. Protagonista laparrucchiera Mara; l’altro, Francesco, è ilcliente cui Mara narra la sua tragedia e ilsuo smarrimento di fronte al dolore diuna perdita. Un dialogo che procedeper capitoli brevissimi, introdotti datitoli che “vanno oltre la loro funzione,assumendo le sembianze di aforismi dalvalore gnomico-sapienzale […]Un’opera dotata di vigorosa forzaimmaginativa e, allo stesso tempo,crudemente realistica[…] Lo stile calibrato emolto consapevole sisostanzia di un lirismoottocentesco,abilmente manovratoda ritmi serrati,pienamentecontemporanei”(Roberto Chilosi, dallaprefazione).

Volevo solo

il vento in faccia

Simone D’Alessandro

Palomar, pp. 110

Euro 10,00

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Poesia/MattucciArchitetto e designer, l’aquilano Atta-

nasio Mattucci, classe ‘69, raccoglie in

questo suo primo libro trentasette

poesie in versi sciolti, con l’intento di

offrire al lettore una variante poetica

moderna: “Una contaminazione con-

tinua, un tentativo di corruzione; nella

speranza che la poesia si possa con-

sumare, tagliare a fette, mettere in

fila. Che si possa leggere e poi… non

rimettere a posto”.

12 matite HB/Attanasio

Mattucci/Aletti Editore,

pp. 50, Euro 12,00

Poesia/VenturaLa pluripremiata Anna Ventura, narra-

trice e poetessa abruzzese d’origine e

romana di nascita, conquista il Premio

Venilia 2007 con questa raccolta di

poesie, molte delle quali inedite, con

cui “il lettore si trova immerso in

un’orizzonte profondamente etico, sti-

molante tanto le emozioni che l’intel-

letto, e i “semplici rumori” cui il libro è

intitolato sono portatori di gioia in

quanto il loro apparente disordine […]

veicola il sapore della vita reale” (dalla

prefazione di Stefano Valentini).

Non suoni, ma rumori/Anna Ventu-

ra/Venilia,

pp. 64, Euro 10,00

Saggi/Di GiannantonioDieci anni di lavoro, di indagini, di stu-

di, di viaggi sono serviti a Paola Di

Giannantonio, insegnante esperta di

lingue classiche e di mitologia per

pubblicare questo interessante volu-

me che raccoglie, come recita il sotto-

titolo, “frammenti e simboli del Neoli-

tico agricolo nella cultura dei popoli

dell’area adriatico-appenninica”: un

viaggio a ritroso nel tempo che porta

alla preistoria partendo dalle tradizio-

ni popolari ancora vive, per raccontar-

ci come l’uomo celebrava la sacralità

della terra.

Terratradita/Paola Di Giannantonio/

pp. 280, Euro 30,00

Poesia/Di GregorioLa poesia di Nicoletta Di Gregorio è,

secondo il critico Walter Mauro, forni-

ta “di un sostrato di innocenza e di

stupore che per intero appartiene

alla prassi della poesia”. In questa

sesta silloge sono contenute trentu-

no liriche che ribadiscono, se mai ce

ne fosse bisogno, il valore di una tra

le penne più sensibili del nostro

panorama letterario.

Il respiro dell’ametista/Nicoletta

Di Gregorio/Edizioni Tracce, pp. 43,

Euro 8,00

Narrativa/PelacciaAl suo primo romanzo, il giovanissi-

mo Mirko Pelaccia da San Valentino

in Abruzzo Citeriore racconta una

storia di ritorno alle origini, di passio-

ne e gelosia concentrata in un mese

e narrata come scritta su un diario da

Flavio, lo stesso protagonista. Una

formula suggestiva e dal ritmo incal-

zante che fa di questo libro un piace-

volissimo esordio.

Il giardino degli angeli inquieti/Mir-

ko Pelaccia/Editrice nuovi autori, pp.

195, Euro 11,00

Arte/CascellaUna mostra e un catalogo che riper-

corrono la vita di Tommaso Cascella

attraverso i suoi quadri (molti dei

quali inediti): un’opera monumentale,

realizzata in tempi record dalla Fon-

dazione Pescarabruzzo, dalla Fonda-

zione Paparella-Treccia e da Ianieri

Edizioni che ha curato appunto il pre-

zioso catalogo. Un volume imperdibi-

le per chi vuole approfondire la cono-

scenza di uno dei massimi esponenti

della grande dinsatia di artisti che ha

dato e continua a dare lustro alla città

di Pescara.

Tommaso Cascella, il percorso

di una vita/G. Benedicenti, V. De Pom-

peis/Ianieri, pp. 125, Euro 45,00

Arte/Di LauroDell’opera di Francesco Di Lauro

(Guardiagrele 1933-Pescara 1999) si

è già detto molto: i suoi interessi

spaziavano dal design alla ceramica,

ma la sua predilezione andava alla

grafica e alla pittura su tela. Schivo e

riservato, a lui la città di Pescara

(dove visse per quasi tutta la sua esi-

stenza) dedicò l’ultima mostra nel

2005. A dieci anni dalla sua scompar-

sa, il Comune di Guardiagrele ha

voluto rendere omaggio al suo pit-

tore intitolandogli una strada: un

giusto riconoscimento per un artista

cui forse andrebbe prestata maggior

attenzione.

Medicina/MayoL’esperienza della statunitense Mayo

Clinic, internazionalmente nota per

l’approccio preventivo alla medicina,

viene finalmente messa a disposizione

anche dei lettori italiani grazie al lavo-

ro di Gianni Belcaro e Maria Rosaria

Cesarone, che hanno curato l’edizione

italiana della celebre Guida all’auto-

cura. Un prezioso volume con infor-

mazioni pratiche descritte in modo

semplice ed efficace su oltre 200 situa-

zioni cliniche che rappresentano le più

comuni e diffuse problematiche medi-

che attuali.

Salute e benessere. Guida all’auto-

cura/a cura di G. Belcaro e M.R. Cesaro-

ne/Minerva medica, pp. 292.

Libri VARIO

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Colonnesonore/MoscianeseAvevano già lavorato insieme alla

colonna sonora di una fiction per

Mediaset, ma stavolta pare che il

sodalizio abbia dato frutti ancora più

buoni. Andrea Moscianese, ex Giulio-

dorme, ha nuovamente collaborato

con Francesco Zampaglione per la

colonna sonora del film The shadow,

ossia L’ombra, “horror sociale” diretto

dal più noto Federico Zampaglione,

fratello di Francesco e leader dei Tiro-

mancino. Il film ha scatenato grande

entusiasmo al prestigioso London Fri-

ghtfest, dove è stato presentato in

anteprima mondiale lo scorso 31 ago-

sto. «È stato davvero emozionante

–racconta Andrea Moscianese– per-

ché tengo molto a questa musica, ci

ho messo un anno a scriverla e realiz-

zarla, è stato un lavoro lungo. Ascol-

tarla in quel cinema (l’Empire di Leice-

ster Square, ndr) con quel magnifico

impianto surround è stato fantastico

e gratificante». A noi toccherà atten-

dere il 2010, quando il film di Zampa-

glione uscirà nelle sale italiane. Nel

frattempo auguriamo al nostro

Andrea una carriera senza ombre.

91

Cinema/SaverioniÈ arrivato tra i finalisti della XIIª edizio-

ne del Cervino Cinemountain – Festi-

val Internazionale del Cinema di Mon-

tagna (svoltosi a Trento alla fine di

luglio) e anche se è tornato a casa a

mani vuote si è trattato di un bel risul-

tato. Stefano Saverioni, teramano,

classe ‘77, col suo film “Diario di un

curato di montagna” ha scalato que-

sta rassegna, considerata tra le più

prestigiose del suo genere a livello

internazionale, senza arrivare in vetta.

Peccato, perché la candidatura al

David di Donatello faceva ben spera-

re per questo documentario girato

sulle nostre montagne e imperniato

sulla vita della parrocchia di Don Filip-

po Lanci. Diretto, girato, prodotto e

montato dallo stesso Saverioni, il Dia-

rio è stato sostenuto da una troupoe

tutta teramana, confermando fra l’al-

tro la grande professionalità di una

città che col cinema ha un rapporto

strettissimo. Un altro film tutto tera-

mano infatti ha ricevuto una nomina-

tion ai David di Donatello: si tratta di

La madonna della frutta di Paola Ran-

di, candidato come miglior cortome-

traggio.

Cinema/Dino VianiDopo Canto 6409, il cortometrag-

gio girato sul terremoto in Abruz-

zo e presentato al Festival di Can-

nes, il cineasta abruzzese Dino Via-

ni torna sulla scena con un nuovo

film, Un giorno e un altro ancora,

che è stato presentato lo scorso

luglio in prima internazionale

presso lo storico cinema Babylon

di Berlino. Alla realizzazione del-

l’opera hanno collaborato Luca

Reale per il montaggio, Emanuel

Dimas De Melo Pimenta per le

musiche e Sandra Muller per la

grafica. Il film è stato patrocinato

dall’Istituto Italiano di Cultura di

Berlino per il suo alto valore cultu-

rale. Il film è parte di un progetto

molto più vasto che si chiama

«Storie di pietra – tra memoria e

sogno», finanziato dalle Comunità

montane Val San-

gro e Medio San-

gro, che ha coin-

volto venti Comu-

ni di quel territo-

rio e più di cento anziani che han-

no raccontato la loro vita, ripercor-

rendo a ritroso, attraverso i ricordi,

le vicissitudini della loro esistenza.

Il materiale raccolto costituisce

uno dei più importanti documenti

sulla memoria storica di quei luo-

ghi mai realizzati prima. «In questo

lavoro –spiega il regista– ho volu-

to raccontare la vecchiaia come

momento di sintesi finale dove

ogni gesto, ogni momento assume

un significato diverso, definitivo.

Prepararsi ad andare dunque per il

viaggio di ritorno, in attesa di quel-

l’attimo in cui il reale si confonderà

con il sogno e una luce accecante

si farà calare in un lungo sonno».

F.G.

CinemaVARIO

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Frammenti di felicità,incastonati in una nuova linea di gioielli

i Ciondoli

Le Virtù La Presentosa La Pescarina

Le Sciacquaje gli Anelli i Ciondoli

O r a f o i n P e s c a r aITALO LUPO

Sede: Pescara, via Roma, 31/35 tel e fax 08527666 - Showroom: ORO NOSTRUM c/o Aeroporto d’Abruzzo tel 0854311095Studio e progettazione: DESAURUM - oggettistica di pregio, via dei Colli, 53 Bolognano (Pe)

www.italolupo.it [email protected]

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ArteVARIO

Giovani/FatoDue mostre nelle due sedi della Galleria Cesare

Manzo, a Roma e Pescara, per la presentazione di

un progetto iniziato nel 2004 dall’artista pescare-

se Matteo Fato: mappare il volo delle rondini

sopra i tetti di Pescara. Dopo un mese di ricerca le

centinaia di chine su carta sono state messe in un

cassetto; l’anno seguente, Fato è tornato sul luogo

in cui ha realizzato lo studio dal vero e ha realizza-

to una seconda serie di chine in assenza dello

stormo; al ritorno delle rondini, Fato si reca un’ulti-

ma volta sui tetti cercando di isolare le traiettorie

dei singoli corpi in volo attraverso l’occhio della

telecamera. Nel corso dei successivi quattro anni

l’artista sviluppa un proprio linguaggio pittorico

esplorando le strutture di esperienza e conoscen-

za attraverso il segno calligrafico. Nei corridoi del-

la galleria di Pescara, un fil di ferro si storce da una

frase presa in prestito: una

frase di cui

l’artista si appropria perché percepita come por-

tatrice di qualche verità essenziale. Prima di mani-

festarsi come oggetto tangibile, la frase è stata let-

ta, copiata, riscritta, letta, copiata e riscritta. Incor-

niciati e appesi, i cerchi dalla seconda serie del

progetto mettono a fuoco il ricordo di un tempo

futuro che riappare accanto come visione inquie-

tante nella proiezione video delle rondini isolate.

A Roma, le prime tracce del progetto sono riprese

ed animate in un video che emana l’aura di un

momento perduto. I disegni stessi sono posizio-

nati su un tavolo continuo che attraversa le sale

della galleria, rivelandosi, nella loro disposizione,

proto-simboli nati per annunciare la nascita di un

nuovo linguaggio. Per Fato, il vuoto è un testo

congelato in quel preciso istante prima della rea-

lizzazione di questa impossibile rivoluzione lin-

guistica. Ciò che quindi rimane è il tempo: un

gruppo di sculture in ferro illuminano la perdita

della cadenza ed il linguaggio ricerca l’assurdità

del suo rinnovamento in una stasi fra parola e fan-

tasma.

Pittura/Di BelloNegli ultimi dipinti di Franca Di Bello le bluastre onde

inarcate che si alzano minacciose e si sfrangiano nel

bianco spumeggiante della schiuma, possono essere

considerate una trasposizione pittorica de”L’onda” in

Alcyone di Gabriele d’Annunzio. La forza agitata e

incoercibile del mare, la sua varietà di manifestazioni

e soprattutto la sua sovrastante immensità da sempre hanno attratto e affascinato il mondo dell’arte.

Gli ultimi dipinti di Franca Di Bello, esposti nella Maison des Arts nel giugno scorso, svolgono quasi

tutti il tema del mare e il critico Leo Strozzieri intitola il catalogo da lui curato, “Un dialogo col proprio

io”. Mentre la mostra dell’anno precedente nel Museo delle Genti d’Abruzzo corrispondeva ad un dia-

logo della Di Bello con la natura, quella di quest’anno manifesta l’irrompere tumultuoso della sua for-

za interiore dal profondo della psiche. Lo scrittore Giovanni D’Alessandro in un suo commento critico

alla pittrice, usa l’espressione “captazione della forza” alludendo alla capacità della Di Bello di farsi

interprete delle forze della natura. Nel suo percorso artistico la pittrice è andata allontanandosi sem-

pre più dall’opzione figurativa. Ella si è sottratta alla rappresentazione oggettiva della realtà per dare

sfogo piuttosto al gusto introspettivo dell’evocazione. Nelle opere della Di Bello le immagini non han-

no più una struttura ben definita: svaniscono i contorni plastici della forma e si pone in atto una vera

e propria palpitazione cromatica che crea una visione interiore. È il prolungamento simbolico di sti-

moli, di impulsi che nascono nell’artista dalla psicologia del profondo. In molte sue opere è suggesti-

vo il senso del non finito, dell’appena abbozzato. Queste pitture hanno un carattere fluido, in evolu-

zione, quasi a sottolineare che continuano a definirsi nella mente dell’osservatore.

Mostra/GallianiSono molti i punti di contatto tra Omar Galliani, maestro

emiliano del disegno internazionale, e l’Abruzzo. Il primo è

datato 1978, quando all’alba della sua carriera presentò la

sua “Riannunciazione” al premio Michetti. Il secondo è pro-

prio Michetti: la tesi di laurea di Galliani aveva per oggetto il

rapporto tra fotografia e disegno, due elementi cardine del-

l’opera del Maestro abruzzese. Il terzo sono i suoi quadri

esposti nel santuario di San Gabriele a Isola del Gran Sasso, e

il quarto è il quadro-augurio che ha donato alla città del-

l’Aquila, intitolato Nella notte a L’Aquila, che ritrae un ulivo:

simbolo di forza, caparbietà e ricchezza. Il quinto è, oggi, la

bella personale dell’artista, Sguardi, che trova spazio nelle

sale del Museo Michetti, in cartellone fino al 25 ottobre.

“Omar Galliani è il grande maestro del disegno italiano, e lo

è perché ha saputo opporsi con coraggio a quell’arte

moderna e contemporanea che ha negato l’uomo distrug-

gendone il volto […] Con Galliani la bellezza del volto riac-

quista spessore e dignità perché sa coniugare l’uomo di

oggi e l’uomo di sempre” (Giovanni Gazzaneo, dall’Introdu-

zione al catalogo).

Premio/PilottiUn progetto di Giorgio

D’Orazio e Carletto Sorgi ha

realizzato a Pescara una

mostra e un premio intitolato a Vincenzo Pilotti, architet-

to ascolano (ma di origini abruzzesi) che ha fortemente

contribuito a disegnare le forme di Pescara, intervenen-

do in tutta Italia e maggiormente a Teramo e ad Ascoli

Piceno. Il tema della prima edizione, conclusasi a fine set-

tembre, è stato “Pescara tra architettura e ‘900: dal passa-

to pensando un futuro”, e il primo premio (una targa e un

buono acquisto di mille euro) è andato a Davide Puma,

premiato nella sezione pittura per il quadro “Pescara”.

93

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TabùVARIO

Maschile e femminile sono definizioni di genere sessuale maanche di specifici stili comportamentali. È maschile la forza difarcela, il giudizio, la regola, la concretezza. Invece amore eaccoglienza, trasgressione, lasciarsi andare, spiritualità, sonoargomenti di natura femminile. Ogni individuo dovrebbe pos-sedere tutte queste qualità, ed infatti in neuroanatomia si parladi emisfero femminile (il destro: intuitivo-emotivo) e maschile(il sinistro: logico-matematico). Ma le mutazioni culturaliinfluenzano i ruoli comportamentali, ed oggi subiamo unasocietà industrializzata ed evoluta ma quasi totalmente priva dimaschile e di paterno. Il risultato lo abbiamo intorno, e nonvoglio farne l’ennesima drammatica descrizione. Se la creatività, emisfericamente a destra e quindi femminile,ne trae slancio positivo, di contro progettualità, costanza, pre-cisione, sono soltanto alcuni degli aspetti che tendono a laten-tizzarsi. Inoltre la carenza psichica del maschile predisponealla depressione, patologia in costante aumento. In attesa chele mutazioni sociali risolvano il problema, ecco alcuni consigliper fare una cura ricostituente al ruolo maschile. Con i mirabili Fiori di Bach (sempre quattro gocce quattro volteal giorno), per recuperare fiducia e forza di farcela, è utileLarch, nei casi più difficili Mustard, associato ad Olive ove pre-sente spossatezza sia fisica che mentale. Proporrei anche lun-ghi ascolti di musica barocca, rinascimentale e finanche gre-goriana oppure, più vicini ai giorni nostri, brani di Schubert eProkofieff (evitare Beethoven che, a dispetto di quanta forzaesprima la sua musica, è comunque profondamente materno).Per un po’ di tempo, invece, evitate l’ascolto di Jazz e ancormeno Rock. e Pop.Un’ultima considerazione più comportamentale, diretta aigenitori (in particolare, ma non solo, ai papà): ci sarà pure unbuon motivo se i termini “genitore” ed “amico” non sono sino-nimi, e quindi è ora di tornare a far valere la differenza. Certo,la forza paterna non deve servire per picchiare o azzittire i figli,ma per sostenerli e fornirgli sane regole, attraverso tempo,impegno e responsabilità. Se qualcuno ora si scopre a voltarefrettolosamente la pagina della rivista, allora ho colto nelsegno.

*Dottore in Psicologia, Direttore della L.U.ME.N.A., Professore a c. Facoltà di Scienze Sociali, Università

“G. D’Annunzio” di Chieti.

“L'uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni.Come un attore che entra in scena senza aver mai provato. Ma chevalore può avere la vita se la prima prova è già la vita stessa? Per questola vita somiglia sempre a uno schizzo. Ma nemmeno "schizzo" è laparola giusta, perchè uno schizzo è sempre un abbozzo di qualcosa, lapreparazione di un quadro, mentre lo schizzo che è la nostra vita è unoschizzo di nulla, un abbozzo senza quadro”.

da "L'insostenibile leggerezza dell'essere" Milan Kundera

Questo passaggio del libro più famoso, forse, di Kundera lo prediligo tra tantialtri, riconoscendovi una verità tanto lapalissiana quanto inaccettabile. Unavita lunga quanto uno schizzo tracciato a matita da un artista, schizzo di nulla.Non si può fare un abbozzo di quello che non si sa, non si conosce. Lo si puòimmaginare…Neanche. Occorre passarci la vita stessa a fare questo abbozzo.Mi riesce un po’ difficile immaginarmi sessantenne alle prese con l’abbozzodi me. Insostenibile. Da dove si inizia lo schizzo?Uno schizzo in che quadro?Davanti allo specchio, quello intero dell’armadio quattro stagioni, situo il miocorpo frontalmente come fosse quello di un altro, immaginando di farmiimmagine, di situarmi nel quadro di una vita che non afferro ma di cui vorreiavere dominio.Lo scorcio è miseramente esiguo: dietro un’ immagine di donna vedo il murobianco con una stampella a cui è appeso un abito. E un altro specchio cheriflette all’infinito un altro specchiarsi. Magritte e il surrealismo l’avevano giàscoperto il segreto dello specchio e dell’abbozzo, ecco che capisco anch’io lasurrealtà.Ma come mettermi in relazione con me stessa se non mi guardo negli occhi,come faccio il mio autoritratto senza rispecchiamento, senza passare“attraverso lo specchio” come Alice nel Paese dele Meraviglie?L’autoritratto che credo di abbozzare di me è una scissione interna, creaincompatibilità tra il sé con sé. Specchiandomi, mi ritraggo, accetto di farmiimmagine. L’alterità, che si manifesta nell’immagine prodotta, provocaun’espropriazione del possesso di sé. Disegno, proietto me stessa attraversoil segno che mi oggettiva, ma se è vero segno non mi rende cosa: mi vivifica.Sto imparando a specchiarmi per rendermi cosa ‘viva’. Sto imparando adeporre dietro l’immagine riflessa sullo specchio le persone che affrescano ohanno affrescato il quadro- bozzetto della mia vita, per renderle ancora ‘vive’. Come in un quadro vero o in una foto di gruppo ho difficoltà ad inquadrare tutti,a tenere tutto il gruppo compatto alla vista, c’è sempre qualcuno che sfuggeall’obiettivo dell’occhio privo di grandangolo: qualcuno è deformato, qualcunoappartato, qualcuno prepotentemente affamato di spazio. Molte sono le coseriflesse dietro quell’immagine che ogni volta vedo come fosse la prima.Insostenibile tentativo inappagato di comprendersi in questo incessantetentativo di ridefinirsi. Appena uno schizzo.

*Psicologa e Psicoterapeuta

Un abbozzo una vitadi Laura Grignoli*

L’altalena dei ruolidi Fabio Trippetti*

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Parliamo di educazione sessuale: una voltac’era la convinzione che l’educazione ses-suale doveva essere insegnata a scuola, macome tutte le cose che devono essere rea-lizzate in Italia, qualcosa si perse per strada,qualcuno pensò di piazzare qualche suoparente disoccupato, qualcun altro pensò diguadagnarci sopra stampando un libro chedoveva per forza essere adottato dalle scuo-le, qualcuno pensò che dietro ci fosse lamano dei comunisti, qualcun altro che dietroci fosse il Vaticano, e così i ragazzi conti-nuarono ad impararla di nascosto da amicipiù grandi o da riviste porno e così via. Oraè diverso: intanto dobbiamo dividere i ragaz-

zi in due categorie, quelli che hanno il com-puter e quelli che non lo hanno. Quelli chehanno il computer stanno tutto il giorno asmanettare coi videogiochi o a chattare enel momento che scoprono il sesso hannocentinaia di migliaia di possibilità di saperetutto sul sesso; quelli che il computer nonce l’hanno usano il televisore di nascosto,per andare sui programmi porno e da làricavano che quello che vedono fare dalleporcone e porconi che stanno sullo scher-mo, lo fanno con qualche variante anche lefarfalle e le formiche. Allora un bravo genito-re che volesse istruire i pargoletti sull’argo-mento come fa? Intanto è meglio che non si

addentri in descrizioni di tipo idraulico, in cuii soggetti vengano trattati come tubi epompe, perché i pargoli di adesso già hannol’impressione che i loro genitori siano natirincoglioniti, per cui li interromperannodicendo che nella posizione del missionarioadesso non ci tromba più nessuno. Alloracome fare? Io prenderei la cosa dal lato fan-tastico, cominciando col parlare di un paeseimmaginario in cui un uomo politico impor-tante, volendo stare in compagnia, invitò acasa delle ragazze per uno scopo innocente,però ad un certo punto, non volendo, inco-minciò a… Il resto inventatevelo voi.

Continuando il nostro itinerario sulle intelligenze multiple – che significa sostanzialmentenon fossilizzarsi nel considerare le abilità intellettive riferite solamente alle due classiche epiù note forme di intelligenza, che abbiamo analizzato nello scorso numero: quella logica equella verbale - ci occupiamo di altre tre forme di intelligenza, l’intelligenza musicale, cor-poreo-cinestesica e visivo-spaziale. Come si intuisce, la prima è quella basata sull’eserci-zio dell’orecchio e del ritmo; comprende le abilità del cantare bene, scrivere o saper valu-tare testi musicali. Normalmente è localizzata nell’emisfero destro del cervello, ma le per-sone con cultura musicale elaborano la melodia in quello sinistro. Questa intelligenza con-sente, come ad esempio in L. van Beethoven, la straordinaria capacità di riconoscere l’al-tezza dei suoni, i timbri, le costruzioni armoniche e contrappuntistiche. Racchiude anchela capacità di percepire, discriminare, trasformare ed esprimere forme musicali; nonchétutta la struttura della musica e del ritmo. L’intelligenza corporeo-cinestesica, invece, èquella che utilizzano gli atleti, i ballerini; indica la necessità di sapersi muovere abilmenteed anche mantenere in forma il proprio corpo e di essere sportivi. Dal punto di vista funzio-nale coinvolge soprattutto il cervelletto, i gangli fondamentali, il talamo e vari altri punti delnostro cervello. Chi la possiede - come R. Nurejev, C. Fracci o Y. Chechi - ha una padronan-za del corpo che permette di ben coordinare i movimenti ed usare con abilità tutto il pro-prio corpo per esprimere idee e sentimenti. Consente anche, ad esempio, facilità ad usarele proprie mani per produrre o trasformare cose ed include specifiche abilità fisiche qualila forza, la flessibilità e la velocità; nonché il controllo dei movimenti del corpo “volontari”,l’attivazione di movimenti del corpo “pre-programmati”; la connessione mente-corpo e leabilità mimetiche. L’intelligenza spaziale, infine, si esprime attraverso la capacità di orien-tarsi e rappresentarsi nelle tre dimensioni. Consta soprattutto dell’abilità di ‘vedere’ formeed oggetti nello spazio e chi la possiede - ad es. P. Picasso o R. Piano e M. Fuksas - nor-malmente ha una percezione ed una memoria particolarmente sviluppata rispetto ai detta-gli ambientali, ai luoghi, ai percorsi ed alle sfumature di colori, luci ed ombre. E’ un’intelli-genza che implica sensibilità verso la forma, lo spazio, la linea ed include la capacità divisualizzare e rappresentare idee in modo visivo e spaziale traducendosi, sostanzialmente,in: immaginazione attiva; formazione di immagini mentali (visualizzazione); rappresentazio-ne grafica (pittura, disegno, scultura, ecc); riconoscimento di relazioni di oggetti nello spa-zio ed accurata percezione da angoli diversi.

L’intelligenza? ci vuole orecchio, occhio…e il fisico! di Galliano Cocco

Da sei mesi aspettavo questo incontro: ilterremoto del 6 aprile è stato così vastoche è stato impossibilie avere scambi trachi ha lavorato in aiuto degli abitantidell’Aquila. Così quando ho saputo dell’in-contro del 20 settembre ad Alba Adriaticaorganizzata dall’European InternationalInstitute of Emergency Psychology in colla-borazione con la CRI di Alba el’Osservatorio del disagio, orientato a farconoscere al pubblico le esperienze diPsicologia dell’emergenza portate avantisul territorio abruzzese dai volontari, sonostata felice di partecipare. EmanuelaLiciotti, psicoterapeuta e coordinatricedelle attività di Psicologia dell’emergenza,lei stessa terremotata, che ha lavorato dasubito con la sua gente, nel suo interventoha evidenziato come sia stato determinan-te per gli psicologi conoscere il dialetto e lamentalità dei loro concittadini, poichéhanno evitato di aggiungere disagio aldisagio. Nella giornata è emersa la neces-sità di un confronto tra chi lavora per gliaquilani nel ruolo di aiuto, perché l’emer-genza per questo terremoto sarà lunga,molto lunga. Assieme alla città infatti sonoscomparsi luoghi di memoria, persone,case che rappresentano le radici culturalidi 25mila persone. Ho idea che oltre allecase si dovranno “ricostruire” gli aquilani equesto sarà il lavoro più difficile.

*Psicologa e Psicoterapeuta

Ricostruiregli aquilani di Giovanna Romeo*

A scuola di sesso di Pino Capone

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